Microchip sottopelle: come la vita reale si avvicina al cyberpunk
Piccolissimi chip, impiantati nel sottile lembo di pelle tra pollice ed indice, che potrebbero permettere ai datori di lavoro di avere maggior controllo sugli impiegati, e migliorare la sicurezza nelle aziende.
Per quanto possa sembrare l’incipit di una storia orwelliana a tinte cyberpunk, questa bizzarra e inquietante idea non è affatto frutto della penna di uno scrittore, ma è il business model di un’azienda svedese: BioHax.
BioHax e i microchip
È stato il quotidiano britannico The Guardian a dare vita a una discussione pubblica su questa particolare azienda, a seguito delle dichiarazioni del CEO di quest’ultima. Dall’intervista rilasciata al Sunday Telegraph, si capisce l’intenzione della società di espandersi nel Regno Unito tramite l’apertura di un ufficio a Londra e tramite l’instaurazione, a quanto pare già avvenuta, di diversi contatti con grossi uffici finanziari e legali londinesi.
Secondo BioHax, l’idea di utilizzare dei microchip è piuttosto buona. L’azienda, infatti, li utilizzerebbe per sostituire le classiche schede magnetiche di plastica, considerate scomode e inquinanti. Se, però, guardiamo la questione da altri punti di vista – quello etico in primis – i risvolti non sono affatto banali.
Implicazioni etiche e dissenso generale
Come prevedibile, la questione ha fatto scalpore, anche se l’azienda ha sostenuto di dare massima priorità alla privacy dei propri dipendenti. Questo significa niente sistemi di tracking all’interno dei chip, ma nonostante questo BioHax non è riuscita a placare la polemica sul nascere.
Le prime critiche sono arrivate da due organizzazioni molto diverse: la CBI, un importante consorzio di aziende, e il TUC, un’unione di grandi sigle sindacali. La CBI ha parlato in termini economici: il guadagno, infatti, sarebbe troppo basso per giustificare la la perdita di fiducia che colpirebbe le singole aziende. Il TUC, invece, ha espresso una critica molto più radicale, basata sull’opposizione alla sorveglianza digitale da parte dei datori di lavoro.
La critica dei sindacati è d’altronde più che comprensibile: pur fidandosi di BioHax e delle aziende con cui questa lavora, l’idea di inserire sottopelle un chip dal funzionamento ignoto, un chip che manda una quantità sconosciuta di dati al proprio datore di lavoro, non è solo spaventosa, ma rischia di aprire le porte a una crescente sorveglianza della forza lavoro. Questo non vuol dire che sia giusto escludere a priori questa soluzione, ma è necessario almeno aprire un dibattito sulla questione. Si tratta sicuramente di un tema molto delicato, e per questo sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo non può che essere un bene.
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