Il biopic è un animale complesso, perché si porta sempre dietro un grosso rischio: proiettare sullo schermo la pagina Wikipedia della vicenda narrata. Come si evita questo problema? La prima risposta è ovvia: ingaggiare Aaron Sorkin (The Social Network, Steve Jobs) per scrivere la sceneggiatura. Se questa opzione non è disponibile allora il rischio di cui sopra aumenta esponenzialmente. Inutile dirlo, Damien Chazelle, per il suo First Man, non aveva Aaron Sorkin alla sceneggiatura.
Perché dallo sperimentale Guy and Madeleine on a Park Bench, passando per l’incalzante Whiplash fino al meritato successo mainstream di La La Land – capace di far piacere il musical anche ai detrattori del genere – Chazelle non aveva mai abbandonato il suo fil rouge musicale. E alle prime notizie del biopic su Armstrong sembrava si mantenesse sulla stessa linea. Equivoco di breve durata. Fortunatamente.
Oppure no? Chazelle mette da parte il tamburellante battito delle sue pellicole per consacrarsi a un film con tutti i crismi hollywoodiani. Sarà stato un giant leap per la sua carriera? A Los Angeles molto probabilmente la pensano così, ma First Man, a conti fatti, è un film di cui non si sentiva il bisogno. La storia narrata è esattamente quella che chiunque si aspetterebbe immaginando un film biografico su Neil Armstrong. Mai un guizzo, mai un affondo, mai una stoccata. La linea retta tracciata sulla lavagna era per noi spettatori, non per gli aspiranti astronauti. First Man tenta di sbocconcellare qua e là, abbozzando un po’ di Guerra Fredda, un po’ di dramma famigliare, un po’ di NASA cattiva per il “bene superiore” e un po’ di tumulto popolare. A differenza del Neil Armstrong interpretato da Gosling, il film non sa mai bene dove rifugiarsi, perciò prova a parlare di tutto, senza riuscire ad approfondire niente.
E Chazelle ci mette tanta buona volontà, incapsulandoci in una claustrofobia spaziale fatta di bulloni, cavi, pulsanti e sudore, asfissiandoci gli occhi e negandoci l’aria nei momenti giusti. Ma l’esplorazione è fatta anche di vuoto cosmico, e qui la regia si colloca un po’ a metà tra il silenzio assordante di Gravity e quello logorroico di Interstellar. Molto più vicina a Whiplash che a La La Land, la mano di Chazelle trema sui volti dei protagonisti, provando a enfatizzare sentimenti che, vuoi per le interpretazioni basilari, vuoi per la piatta scrittura dei personaggi, non vengono completamente fuori. La linea orizzontale di gesso resta su Armstrong dall’inizio alla fine e, in questo caso, la faccia costipata di Ryan Gosling non aiuta l’esperimento.
Perché quando si racconta una storia così universale, le cui ellissi meno conosciute (i difficoltosi preparativi tecnici, fisici e psicologici per mandare un uomo sulla Luna) sono comunque ampiamente saturabili, c’è bisogno di un colpo di reni. Un taglio obliquo alla vicenda, una puntura da grattare, una polvere fine da conservare in una boccetta di vetro. Altrimenti, se si vuole capire subito First Man, basta vedere il dettaglio sul braccialetto della figlia di Armstrong per sapere esattamente, con svogliata precisione, una delle scene finali del film.
Forse sarebbe stato meglio se l’avesse davvero diretto Kubrick. Nel 1969, però.
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