Sulla necessità di una catalogazione di mercato commisurata alla natura delle esperienze interattive
Può capitare, e ciò è vizio diffuso nella fascia di giocatori ornata di aulente gusto per l’esclusiva, autoproclamata, crème de la crème, che si cada in errore con convinzioni sostenute da autoriconoscimento di autorevolezza scientifica. Eppure, nel consueto bagno di umiltà solitamente non offerto dai più rinomati centri termali, si può scoprire – o “sbloccare”, se più aggrada i praticanti – una stimolante chiave di lettura: l’interlocutore che, con una sfaldata foglia di prezzemolo tra i molari, afferma “Sembra un film interattivo!”, potrebbe non essere così ignorante. Alle prese con Detroit: Become Human, ultima opera di Quantic Dream – studio francese che ha tracciato i binari della narrazione interattiva – la messa in discussione della natura dell’esperienza, non solo è assolutamente legittima, ma anche del tutto normale.
Già adesso, a tesi nemmeno introdotta, si avverte l’aria addensarsi, ed è perciò necessario un chiarimento: potete stare tranquilli, Detroit: Become Human è ancora un videogioco e il sottoscritto non è dotato di una palla da demolizione analitica. Infatti, siamo qui per eseguire tutto il contrario della distruzione: una riflessione costruttiva sulla necessità di ampliare la dialettica riguardo la catalogazione dei prodotti interattivi. A più riprese nel corso della appagante durata di Detroit, attingendo alla conoscenza di game design che chi scrive ha maturato sulle spalle, si sono generate questioni circa l’esclusiva capacità dei videogiocatori di apprezzarne l’essenza. La sensazione che l’impianto sia adatto ad un pubblico più ampio, è diffusa e nota. Quantic Dream, come diversi colleghi che operano nel filone, si rifà nuovamente a strutture mentali che esulano dalla percezione dell’istanza ludica – vedesi precedente pubblicazione a riguardo.
Strutture mentali dell’essere umano, non prerogative del videogiocatore
Morale ed Etica sono il motore dell’esperienza, e la loro chiamata in causa avviene col primato del controller. Quest’ultimo, seppur presenti alcuni, limitati frangenti in cui è fondamentale l’abilità manuale, è il tramite per un percorso lineare, facilmente comprensibile sul piano formale e contenutistico anche a personalità esterne all’ambiente videoludico. Fareste giocare The Elder Scrolls, Halo o World of Warcraft ad un uomo in età avanzata estraneo ai videogiochi nel senso stretto?
Probabilmente sentite già il sapore di causa persa. Tuttavia, con quanto basta di riflessione a ritroso, proporre un’esperienza come Detroit: Become Human alla medesima persona non ha un sapore così amaro, anzi, prepara l’appetito. L’interazione semplice e diretta, la chiamata in causa di strutture mentali dell’essere umano in genere e non legate strettamente a un bagaglio culturale videoludico, rendono Detroit un’esperienza interattiva che può essere proposta senza problemi a una gamma di persone della quale i videogiocatori sono solo una parte. È a questo punto della nostra riflessione che subentra il dubbio, o meglio, una consapevolezza in fase di consolidamento.
Occorre trovare un metodo di catalogazione più dettagliato delle esperienze interattive, nel quale il videogioco rappresenta una frazione dai precisi connotati.
Per fenomeno culturale radicato, un’ampia fascia di persone è avversa, o quantomeno poco avvezza ai videogiochi in quanto denominati in tal modo. La repulsione, e un appassionato che si confronta con l’esterno può viverlo sulla pelle, sovviene spesso al suono stesso del termine: “Videogioco”; “Ma non è l’ora di crescere?” e ancora “Ma giochi ancora ai videogiochi?”.
L’enunciazione delle frasi fatte è sterile, dunque proseguiamo con l’unione dei puntini. Se da un lato occorre fornire gli strumenti concettuali per emancipare i cittadini da un’idea del prodotto videoludico come legato alla sfera infantile-adolescenziale; quindi rendere l’individuo capace di discernere le opere ludiche di bassa lega da quelle elevate; di pari passo bisogna assegnare etichette di mercato commisurate ai connotati dei prodotti.
Una crisi d’identità o l’impulso intrinseco verso l’evoluzione in un assetto più strutturato?
Chiamare tutto “Videogioco”, senza addentrarsi nel Game Design per capire la reale natura di un’opera e definirne la collocazione di mercato di conseguenza, è un tremendo sbaglio: allo stato attuale delle cose, preso atto del pregiudizio radicato di una fascia di popolazione, preclude ad essa esperienza interattive adatte anche ai non avvezzi alle forme fondamentali del videogioco. Entrare nel mondo Game Design è proprio quello che stiamo per fare, per dare un supporto concreto alla tesi qui espressa.
Il Videogioco soffre di una crisi di identità, dovuta all’incongruenza che si viene a creare tra una catalogazione restrittiva e un differenziarsi sempre più ramificato degli impianti. Chiamare videoludico ciò che ludico non è, preclude ottime esperienze a persone non addentro allo specifico mercato dei videogiochi. Occorre dunque ampliare la denominazione a un più generico “Sistema delle Esperienze Interattive”, che faccia dei Videogiochi una delle sue specificazioni, e non la sua identità. L’obiettivo è rendere la fruizione delle esperienze interattive più accogliente per ogni tipo di utente. Quest’ultimo non ha motivo di fuggire da opere come Detroit: Become Human – qualora apprezzi prodotti filmici o letterari comparabili – proprio perché non precisamente inquadrabili nel genere videoludico verso il quale, attualmente, permane titubanza.
Il gioco è una contesa che produce un risultato non equilibrato, la definizione di Elliott Avedon
Detroit: Become Human è un videogioco? Si, perché determinati frangenti riflettono un progetto di game design. Tuttavia, prendendo in esame delle definizioni di gioco, enunciate da accademici o da designer con le mani in pasta, si può ben notare come sia una forzatura utilizzare con fermezza la parola “gioco”. È proprio per questa ambiguità, la quale pende a sfavore del concetto classico di videogioco, che occorre maggiore differenziazione nel collocare prodotti analoghi sul mercato.
“Games are an exercise of voluntary control systems, in which there is a contest between powers, confined by rules in order to produce a disequilibrial outcome”
“I giochi sono un esercizio volontario di sistemi di controllo, in cui c’è una contesa (contrasto) tra potenze, confinate da regole al fine di produrre un risultato non equilibrato”
Questa definizione viene dall’ambito accademico, formulata da Elliott Avedon, Professore emerito di Studi sulla Ricreazione il Tempo Libero della University of Waterloo. Il Signor Avedon è deceduto lo scorso lunedì ventuno Novembre del duemila e sedici, dopo quarantacinque anni di lavoro in ambito ludico, che hanno inoltre visto la fondazione da parte sua del University of Waterloo’s Museum and Archive of Games. Insomma, un uomo che allo studio delle dinamiche dell’intrattenimento ludico ha dedicato la sua vita, anche extraprofessionale.
Dalla sua definizione si possono sviluppare alcune considerazioni, talmente implicite che la loro enunciazione può risultare sorprendente:
- Ai giochi si accede volontariamente, e ciò circoscrive l’attività ludica da qualsiasi altro evento di vincolo di routine;
- Due o più parti (potenze), si contendono un dominio; le suddette sono da ricercare nelle intelligenze partecipanti, che siano naturali o artificiali
- Si vince e si perde; il suddetto “disequilibrial outcome”
Dunque, un’esperienza, per potersi definire “gioco”, deve essere costituita da un conflitto tra parti, al quale si prende parte su base volontaria e che ha l’obiettivo di affermare un dominio; una parte prevalente in un risultato non equilibrato. Provando ad applicare questa definizione a Detroit: Become Human, vediamo bene che calza a pennello quanto la scarpetta di Cenerentola sui piedi delle sorellastre. “Ma come? Ci sono i Devianti che combattono contro gli Umani oppressori, questo non ti pare un conflitto?”; si, la nostra parte razionale che formula questo pensiero ha inconfutabilmente ragione, ciò rappresenta un conflitto. Tuttavia, rimanendo nell’ambito del Game Design, si parla di contesa formale tra parti interagenti, non di confronto contenutistico per quanto concerne la sfera diegetica. La formulazione proposta del Professor Avedon si applica solo in alcuni, limitati frangenti di Detroit, esercitando inoltre alcune storture; vediamo perché.
Come ci suggerisce Avedon, la dialettica tra le parti porta alla formazione di un polo vincitore e una controparte vinta.
Nonostante sul piano formale si possa assistere al fallimento o al superamento positivo di un quick-time event, si fa comunque fatica a inquadrare Detroit: Become Human in un contesto di contesa che produce vittoria da una parte e sconfitta dall’altra. Non c’è relatività intrinseca alle meccaniche che permetta di individuare una componente vinta e una vincitrice: il giocatore – più genericamente, fruitore – non ha obiettivi imposti dall’impianto, se non quello di sedere e partecipare a uno sviluppo narrativo guidato, seppur con ampia variabilità.
Il risultato non equilibrato si può individuare sul piano contenutistico – con il fine diegetico che vede la prevalsa di Androidi su Umani, o viceversa – ma non come “outcome” ludico. Tutto questo perché, come dimostrato, Detroit: Become Human non contempla il conflitto formale di due parti interagenti in un contesto limitato da regole. L’utente agisce come innesco di una narrazione predeterminata anche nella sua variabilità, e l’unico “outcome” è puramente di carattere narrativo e non ludico.
I giochi hanno valore endogeno e si combatte per un obiettivo, la definizione di Greg Costikyan
Ben consci della rigidità delle definizioni provenienti dall’ambito accademico, conveniamo che occorra ampliare la riflessione. Ci avvarremo di una formulazione proveniente da una personalità che ha avuto, e ha tutt’ora, le mani in pasta nel Game Design più crudo. Il designer in questione è Greg Costikyan, il cui saggio “I Have No Word And I Must Design” contiene riflessioni autorevoli sulla definizione di gioco, ha lavorato ad ogni genere ludico nell’arco della sua carriera, e ci regala una formulazione tanto stringata quanto densa di implicazioni.
“[A game is] an interactive structure of endogenous meaning that requires players to struggle toward a goal”
“[Un gioco è] una struttura interattiva dal significato endogeno che richiede ai giocatori di combattere (dibattere, sforzarsi) verso un obiettivo” [Sic!]
Costikyan mette subito un paletto fisso: i giochi sono caratterizzati dall’interattività, dunque da agenti non passivi. In una constatazione così generica, l’ultima fatica di Quantic Dream rientra perfettamente. Tuttavia, occorre puntualizzare che in mero termine temporale, di durata dell’esperienza, c’è una discreta componente passiva.
Ciò che permette di ampliare in modo apprezzabile la riflessione è l’espressione “struggle toward a goal”
Come già sappiamo dal Professor Avedon, Greg rimarca che un gioco prevede un obiettivo, che si ottiene con un conflitto tra parti. Tuttavia, si individua una sfumatura: l’ultima definizione affrontata implica sfida, “challenge”, intrinseca al significato di “struggle”. Vediamo dunque che classificare Detroit: Become Human come un’esperienza strettamente ludica diventa sempre più difficile, se non una forzatura.
Il game designer parla di “significato endogeno”. Ciò può essere inteso come la valenza che il gioco ha per sé stesso, dunque una formulazione diversa della distinzione tra gioco e routine effettuata da Avedon. Tuttavia, ci si riferisce più precisamente ai rapporti che si instaurano tra il gioco e le parti per mezzo di valori endogeni. Provando ad individuare i valori endogeni di Detroid: Become Human, l’unico risultato che ne viene è la libertà di scelta; ciò che ha valore è il potere che l’utente ha sullo sviluppo diegetico. Tuttavia, questo determina l’incrinarsi della definizione classica di “endogenous value”, il cui accumulo, perdita o qualsivoglia impiego entro le meccaniche – cammuffato o meno – determina una modificazione del rapporto tra le parti. Queste ultime assenti nell’impianto messo in piedi da Quantic Dream, come precedentemente dimostrato.
Se Detroit: Become Human non calza nelle due definizioni, allora dove?
A conti fatti, Detroit non è inquadrabile in ambe le definizioni, parimenti autorevoli, senza esercitare forzature sulle medesime. L’articolata esposizione dalla quale siamo reduci non mira a disassemblare la natura di Detroit: Become Human, prodotto strutturalmente saldo e avvincente. Si vuole mettere in luce la crisi di identità che affligge il mercato videoludico contemporaneo; prendendo come exempla una delle esperienze più al limite nella definizione di videogioco; ed individuarne una delle cause: un fatale reiterarsi di una catalogazione fuorviante.
Opere come Detroit: Become Human sono precluse allo specifico pubblico definito nella tesi, nel quale troverebbero invece terreno fertile. Proprio il pubblico che, per fenomeno culturalmente radicato, ha naturale avversione davanti al termine “videogioco”. Dal momento che l’intento del sottoscritto non è proporre verità assolute, bensì stimolanti chiavi di lettura, lascio ai lettori il compito di elaborare soluzioni all’esplicitato circolo nocivo. In altro tempo, ma nello stesso luogo, parleremo approfonditamente del suddetto fenomeno di repulsione storicamente radicato; in modo da dare ulteriore corpo alla riflessione, che ci auguriamo si espanda a macchia d’olio.
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