A 13 anni dalla prima iterazione, Remedy rispolvera l’IP di Alan Wake per consegnare ai fan qualcosa di più sostanzioso di quell’American Nightmare frutto delle logiche mercato, più che di reale velleità artistica, con Alan Wake 2.
Lo sviluppo del secondo capitolo non è stato particolarmente tribolato, ma al contempo non si può dire che abbia goduto della migliore delle gestazioni. Alan Wake, uscito in esclusiva su Xbox 360 nel lontano 2010, non ha incontrato un successo commerciale al lancio. Così come nemmeno la recente remastered è riuscita a rispettare le aspettative, nonostante il titolo avesse giustamente assunto un’aura da cult sfortunato nel frattempo.
L’originale seconda iterazione, dopo una fase di preproduzione, è andata dunque incontro ad un’inevitabile cancellazione. Questo per l’assenza d’interesse concreto da parte di publisher altri rispetto a Microsoft e con la Casa di Redmond più propensa a commissionare una nuova IP della quale sarebbe stata effettivamente proprietaria: Quantum Break.
Nel 2019, l’arrivo sugli scaffali di Control segna un nuovo inizio per Remedy, col proclama di voler rendere il titolo sulla crisi all’Oldest House la pietra angolare di un universo condiviso tra tutte le proprietà intellettuali della quasi trentennale esperienza della software house finlandese.
Questo breve excursus sulla storia editoriale di Remedy non è una divagazione fine a sé stessa, quanto più un’infarinatura sulle fondamenta su cui poggia l’intero progetto Alan Wake 2. Perché se, con Control, Sam Lake e soci hanno lasciato intravedere le peculiarità dell’operazione solo in potenza, il ‘futuro’ diventa ‘adesso’ nella seconda epopea dedicata allo scrittore maledetto, intrappolato nel luogo oscuro sul fondo del Cauldron Lake.
Vista l’enorme ambizione dietro il titolo, è lecito chiedersi se tutto sia andato secondo i piani o se l’Oscurità abbia impedito al talentuoso sviluppatore finnico di centrare il punto. Scopriamolo insieme con la nostra recensione!
Un mostro ha molti volti. Questa storia è un mostro
Così come per il titolo originale, Alan Wake 2 è un’opera profondamente story-driven, che della narrativa fa il suo fondamentale cardine. La vicenda si ambienta ai giorni nostri, a 13 anni dagli eventi del primo capitolo, con una scia di omicidi che rompe la quiete della già nota comunità di Bright Falls, cittadina immersa nel verde dello Stato di Washington.
Ci ritroviamo nei panni di Saga Anderson, un’agente dell’FBI dalle capacità… peculiari, nota per aver risolto casi all’apparenza impossibili da risolvere. La persona giusta al momento giusto, vista la particolarità del caso e delle sue vittime: persone che hanno come unico elemento comune quello di essere scomparse, da Bright Falls o limitrofi, nel 2010.
E se pensate che sia abbastanza strano che degli scomparsi da più di un decennio risbuchino dal nulla solo per trovare la peggiore sorte possibile, forse è perché non sapete che, in certi casi, la morte non è la meno preferibile delle alternative.
Dall’altro lato della realtà, infatti, Alan Wake è ancora intrappolato nella stanza dello scrittore, proiettando sé stesso in una versione di New York da incubo, imperterrito nel cercare una via d’uscita dal Luogo Oscuro. Lo fa attraverso la sua arte, tentando di scrivere la storia perfetta che possa manipolare la realtà che lo circonda, tanto da riuscire a scappare dalla prigionia che ne mette a repentaglio la sanità fisica e mentale;
ma la Presenza Oscura continua a dargli la caccia, lo stana e lo costringe a ricominciare daccapo, spesso fagocitandone i ricordi o loro frammenti e rendendo vano ogni ulteriore tentativo.
Queste due rotte, all’apparenza parallele o speculari come possono esserlo una foto e il suo negativo, arriveranno a collidere in qualche modo e ad influenzarsi a vicenda, sulla scorta degli obiettivi comuni e di un’inspiegabile connessione; ma se ci limitassimo a ridurre Alan Wake 2 ai minimi termini, avremmo scoperto meno della metà della proverbiale punta dell’iceberg.
Quella imbastita da Sam Lake e da tutto il team creativo di Remedy è una storia in un’altra storia di orrore, tanto e inganno, dove nulla è ciò che sembra e faticheremo a capire cosa sia reale – se qualcosa di reale effettivamente esiste. Una sovversione delle aspettative continua che si ripercuote sia sui colpi di scena che sul mood degli stessi capitoli da affrontare.
Per fare un esempio concreto, se nelle prime battute della campagna di Saga ci sembra di essere in una stagione apocrifa dell’antologico True Detective, la storia ci porta man mano più vicino alle atmosfere oniriche dell’ultima stagione di Twin Peaks, con un Alan novello Dale Cooper che ha a che fare con tutta la psicotica follia e le malsane norme che regolano la “sua”, personale Loggia Nera newyorkese.
Oltre a questo, il racconto è pregno di simbolismo metanarrativo, che nasconde una schiera infinita di tematiche: si va da dall’inevitabile scontro tra artista-creatore e personaggio-creatura alla lotta contro l’oscurità della depressione;
dall’Ego come primo nemico da abbattere per superare i propri limiti, alla gestione della fama e del successo in maniera sensata;
dalla peculiare visione simbolica data all’acqua, tradizionalmente elemento mondante e di purificazione che qui diventa amplificatore delle nostre colpe, porta d’accesso alle nefandezze dell’oscurità. Con ciò che questo cambio di paradigma implica nel suo messaggio di fondo.
Il tutto gestito con una raffinatezza e un’eleganza fuori scala per l’ambito videoludico e innestato in un universo condiviso coerente e naturale, come se effettivamente tutti i titoli precedenti della casa finlandese fossero tessere di un enorme puzzle, chiaro ai suoi autori sin dal principio.
Alan Wake 2, un caleidoscopio oscuro
Parlando di puzzle, si tratta del parallelismo che abbiamo trovato più calzante anche nell’ambito del gameplay. Se il fil rouge è quello dell’Horror/Thriller Psicologico di stampo Survival – stavolta tout court, con gestione dell’inventario e delle poche munizioni a nostra disposizione, a differenza dell’elemento action-adventure preponderante nel primo capitolo – la pletora di situazioni in cui la voragine della trama di Alan Wake 2 ci trasporta è estremamente varia.
Innanzitutto, la storia si dipana attraverso le due distinte campagne di Saga e Alan, selezionabili a piacimento dal giocatore dalla fine di un lungo incipit di una manciata di ore; Sono entrambe giocabili tutte d’un fiato, dunque, senza la necessità di rimbalzare continuamente da un protagonista all’altro. Esse condividono sia similitudini che differenze:
Saga ha accesso al proprio Luogo Mentale in cui leggere documenti, tenere traccia di filmati e trasmissioni radio, potenziare il proprio armamentario attraverso dei cofanetti portapranzo rinvenibili in giro nelle mappe di gioco – Cauldron Lake, Bright Falls e Watery – e interagire col Tabellone del Caso. Quest’ultimo è il fulcro della fase investigativa, esclusiva per l’agente Anderson.
Tramite dialoghi e il rinvenimento di prove circostanziali, Saga ha a disposizione delle polaroid mentali da affiggere al Tabellone. Una volta trovati tutti gli elementi per rispondere a una data domanda, Saga ha una deduzione che le permette di avanzare nella storia o sbloccare linee di dialogo precedentemente inaccessibili.
Se questo è vero per specifiche situazioni, non lo è per tutte. Anzi, diverse volte ci è capitato di risolvere un enigma prima ancora di fissare le polaroid, il che ha scatenato un autocompletamento del Tabellone per rimettersi in pari con le nostre azioni.
Ciò ci ha fatto riconsiderare il ruolo di quest’ultimo, al netto lo ripetiamo di qualche sequenza specifica: si tratta di una sorta di diario delle missioni interattivo. Utile al giocatore per avere sempre contezza di ciò che succede, gradevole nel suo tentativo di metterlo nei panni del detective di turno, ma pur sempre un’attività strettamente guidata, con i pro e contro che ne conseguono.
A completare il cerchio del Luogo Mentale c’è l’attività di Profiling: “intuizioni” che l’agente Anderson riesce ad estrapolare entrando in contatto astrale con sospettati e altri personaggi. Una sorta di interrogatorio metafisico che è a sua volta un punto focale della caratterizzazione di Saga.
Viceversa, Alan ha a disposizione, come anticipato, la Stanza dello scrittore: luogo ove Wake ha l’interessante capacità di cambiare la storia che sta scrivendo, e dunque le situazioni che si trova a “vivere”. Rispetto al Tabellone del Caso queste fasi sono parimenti guidate, ma totalmente interagibili e visivamente straordinarie.
Per approcciarvisi abbiamo bisogno di una Scena e di Idee, ritrovabili guardando le scene stesse da una particolare prospettiva chiamata Eco. Il cambio di scena avviene in tempo reale e serve a risolvere puzzle ambientali o a trovare strade dove prima non c’erano.
Anche in queste istanze, una sola delle idee serve ad avanzare nella storia, ma possiamo applicare tutte le idee ad ogni scena per scoprire qualche segreto o dei consumabili. Ed è qui che l’idea del titolo come un grosso puzzle da rimettere assieme diventa palpabile. Ogni tessera con estremità convessa può andare con qualunque altra con un lato concavo, ma solo la combinazione giusta è in grado di chiudere il cerchio.
Per quanto riguarda il gunplay, invece, anche Wake gode di un piccolo sistema di progressione per le proprie bocche da fuoco. Stavolta il compito è demandato alle così dette Parole di Potere: frasi scritte circolarmente che lo scrittore deve trovare e inquadrare con la torcia, nel Luogo Oscuro.
Se Anderson e Wake godono di un arsenale dedicato e il feeling è – seppure blandamente – differenziato tra i due protagonisti, quando c’è da menare le mani il discorso torna a farsi piuttosto univoco.
Il Combat System, senza girarci attorno, resta molto ancorato a quanto visto nel primo capitolo – col consueto mix tra armi da fuoco e fasci di torcia – al netto di qualche accorgimento non di poco conto come l’assenza della barra di stamina, croce dei fruitori del primo Alan Wake.
Pur mettendo da parte il succitato consumo dell’energia e pur avendo congegnato un sistema tutto sommato responsivo e preciso, lo shooting resta ancorato a dinamiche piuttosto vetuste che anche i recenti Survival Horror a telecamera over-the-shoulder hanno ampiamente superato, come un sistema di cura troppo macchinoso e dispendioso in termini di tempo, o un cambio-armi ugualmente compassato.
Queste sbavature non rovinano assolutamente l’esperienza, ma restituiscono l’immagine di una software house che ha dedicato meno sforzi di quanto avrebbe potuto in questo comparto. Un vero peccato, visto che il feedback dei colpi – come pure quello visivo dei danni ai nemici – risulta abbastanza sul pezzo.
I’ll show you the Herald of Darkness
A proposito di pezzi, è impossibile non citare nella trattazione la gigantesca colonna sonora di Alan Wake 2. Gli immancabili Old Gods of Asgard – alias videoludico dei Poets of the Fall – fanno capolino anche in questa iterazione e in un ruolo tutt’altro che marginale, essendo protagonisti di almeno un paio di situazioni decisamente memorabili;
ma c’è di più: alla fine di ogni capitolo, così come se stessimo assistendo a un prodotto televisivo seriale, c’è una breve outro che funge da sigla di chiusura. Si tratta di pezzi profondamente coerenti col mood di ciò che è appena successo a schermo e momenti di stanca meritati dopo alcune fasi che regalano sincero turbamento.
Rimanendo in tema, infatti, il titolo è pieno di Jumpscare visivi e uditivi, che per quanto funzionali a catalizzare la tensione del momento in un climax, talvolta, diventano decisamente ridondanti: interi livelli sono pieni zeppi di queste immagini disturbanti accompagnate da suoni stridenti, a tutto schermo, con la media di uno ogni manciata di secondi.
Da un titolo che gode di un’atmosfera così ricercata, inquietante, visivamente disturbante in tanti frangenti e dotato di una direzione artistica tanto caratteristica e vincente, l’uso di questi escamotage piuttosto banali e in maniera così massiccia è decisamente gratuito, controproducente persino.
Mentre è eccezionale l’intero cast coinvolto, sia nelle voci che nelle performance in live action. Sugli scudi, a titolo meramente simbolico, il ritorno di Matthew Porretta al leggio e mimica e fisicità di Ilkka Villi a dare rispettivamente anima e corpo al tormentato scrittore di The Sudden Stop.
Alti e bassi, invece e infine, per quanto attiene al comparto tecnico. Se il titolo è dotato di un incredibile sistema d’illuminazione, coadiuvato da un’Art Direction che, ci ripetiamo, è creativamente da picco generazionale, durante la nostra prova su PS5 in modalità performance – che ci ha tenuti impegnati per più di 25 ore – abbiamo assistito a cali di Frame Rate più frequenti di quello che avremmo sinceramente desiderato.
In Conclusione…
Alan Wake 2 è un puzzle, un rompicapo, sia per i giocatori che per i critici. Si tratta di un titolo che si sottrae costantemente ad un genere e ad uno schema predefiniti. Sbalordisce lo spettatore con un Colpo di Teatro e lo trasporta in una storia nella storia dove nulla è ciò che sembra.
Vive della sua arte proprio come Alan Wake, insomma. Sempre come lui, purtroppo, sembra lanciare velati ammiccamenti all’odiato/amato luogo oscuro dal quale lo scrittore vuole irrimediabilmente uscire, ma a cui rimane indissolubilmente legato.
Nonostante qualche sbavatura tecnica, nel combattimento e nell’abuso talvolta smodato dei Jumpscare, proprio non ci sentiamo di penalizzare un’opera così pregna di sostanza e significati.
Dopotutto, in questo caleidoscopio oscuro, l’imperfezione diventa forse la più sincera delle espressioni. Magari non ce ne rendiamo conto, oppure ce ne siamo dimenticati. Alan Wake ce lo ricorda: fraintendere è un dono che non è concesso a tutti. Così come vedere un lago dove, in realtà, c’è un oceano.