Il coronamento di una carriera, un blockbuster che guarda oltre
Quando venne pubblicato Ready Player One di Ernest Cline, i più attenti capirono subito che sarebbe stata solo questione di tempo, prima dell’arrivo di una mente vispa, capace di intendere il potenziale filmico dell’opera. Ad oggi, non bastano due mani per contare i registi rampolli postmoderni – sempre pronti a cimentarsi in nuove prove di forza digitali, in mondi fittizi ed euforici. Chi avrebbe mai detto che proprio uno dei padri dell’era Postmoderna del Cinema, sarebbe stato il primo a fiutare la magia insita nel concept di Ready Player One? Un regista di una certa età, che si confronta con materia appartenente ad un’altra generazione, approfondita quanto basta per essere proibitiva ai più.
Eppure, nelle mani di Steven Spielberg – recente David di Donatello alla carriera – l’opera di Ernest Cline è come a casa. Giocatori, benvenuti ad Oasis.
Il trionfo postmoderno, la citazione euforica e l’estetica ludica
La versione filmica di Ready Player One è in ogni suo aspetto, meno che uno, uno dei massimi esponenti del cinema postmoderno. Il setting è imperniato sul concetto di citazione – manifesta nel tipico citazionismo euforico. Se la trama non fosse di spiccata solidità, la additeremmo come mero pretesto – letteralmente, sandbox – di citazioni, in una gara folle a chi le trova tutte. Eppure non è così: l’impianto narrativo messo in piedi prima da Cline, e poi rielaborato da Spielberg, rende il richiamo alla cultura Nerd e Geek anni ’80 come qualcosa di assolutamente naturale. Il citazionismo c’è, permea tutti gli aspetti della pellicola, ma non fa di tutto per togliere la scena ai protagonisti di Ready Player One e alla riflessione proposta dal film.
Sul piano dello stile, esaltazione antitetica di Oasis
Sul piano dello stile, siamo di fronte alla pura manifestazione dell’estetica ludica postmoderna – salvo qualche caso in cui l’uso del carrello rimanda a precisi significati. Ogni utilizzo della macchina da presa, ogni movimento particolare, la profondità di campo, così come il fuori fuoco ed il fuori campo, fanno parte di un gioco e non vogliono in nessun modo alludere ad uno studio del personaggio o ad una precisa lettura della situazione. Tutto esiste per puro diletto visivo, ma dopotutto, non vi pare che rientri perfettamente nel concetto di Oasis? Un gioco, una realtà virtuale, non parallela ma intrecciata indissolubilmente con la nostra. Con questa chiave di lettura, quanto detto assume un altro significato. L’uso puramente ludico di quelle che qualche decennio fa erano tecniche di natura riflessiva, esalta in modo antitetico la personalità di Oasis, facendo percepire l’euforia ed il caos di un mondo – un gioco – senza regole.
I tempi, la comicità, aspetti tecnici
Onde evitare un prolungamento della noia accademica del primo paragrafo, parliamo di materia più pragmatica: i tempi della sceneggiatura, gli spunti comici e le caratteristiche peculiari che allineano ipoteticamente il film alla collana di cult Nerd formatasi da trent’anni a questa parte.
Sul piano diegetico, freschezza e solidità
Siamo in un solco ben definito, fatto di tempi accelerati all’inverosimile per asservire una capacità d’attenzione sempre più contenuta da parte dello spettatore. Trovandoci in una linea tracciata, è inutile darsi a astrusi confronti con i bei tempi. Osserviamo dunque come Ready Player One spicchi tra i suoi contemporanei per freschezza: è sì di rapidissimo svolgimento, ma non ha la pretesa di inserire trame, sottotrame ed eventi su eventi, per poi farli appassire. Ready Player One è lineare, ha colpi di scena quando servono e non mette più carne al fuoco di quanta possa cuocerne e servire gustosa allo spettatore. Tutto è al suo posto, e sul finale ci accorgiamo della ottima solidità diegetica del prodotto.
Gli intermezzi comici? Non come pensate
Gli spezzoni comici – sostantivo usato non a caso, in quanto rappresentano la sospensione diegetica, nella maggior parte delle pellicole contemporanee – fanno parte di uno schema di realizzazione volto ad acchiappare più spettatori possibili. Piacciano o meno, anni ed anni di martellamento, portano lo spettatore ad associare al blockbuster i necessari intermezzi divertenti. Con Ready Player One, non aspettatevi i classici – altro termine usato volutamente – momenti tristemente simpatici, o buffi tendenti al cringe più blu. Il trend avviato dai Supereroi al cinema o dai remake più recenti, viene finalmente spezzato, in favore di momenti più studiati ed armonizzati con il resto della sceneggiatura. Non ci sono intermezzi altisonanti, studiati a tavolino, ma situazioni comiche di per sé o personaggi buffi per antitesi. Prima di essere un blockbuster, è un film di Steven Spielberg.
Un cult, ma solo il tempo può dirlo
Quali sono i connotati di un cult? La risposta alla domanda non è affatto semplice, e quanto dirò potrebbe perdere il suo valore nel giro di qualche anno. Non la congiunzione degli astri, ma l’incrociarsi di fenomeni antropologici, economici e sociali determina il consolidamento di un’opera sul piano collettivo. Guardando al passato, Ready Player One ha tutte le carte in regola per diventare un cult, ma è proprio guardando al passato che si cade in errore. Prendiamo atto, crogioliamoci nell’errore ed aspettiamo la smentita del tempo.
Steven Spielberg è il padre di una tradizione filmica che in trent’anni ha raggiunto lo status di cult. In Ready Player One troviamo tutti i connotati del film fantastico anni ’80, svecchiati ed applicati ad un concept estremamente attuale. Non si parla di riportare in vita macchiette, ma di rielaborare precise figure guardando ad allo specifico bagaglio di tradizioni proveniente da tre decenni addietro.
Qualche esempio, senza fare grandi anticipazioni
Non abbiamo il tanto abusato villain folle, ma un antagonista che mette in perfetto equilibrio brutalità, sideralità e ridicolo – senza, come detto, avere momenti comici specificamente realizzati. Il protagonista ha un aspetto ed un nome impossibile da dimenticare – Wade Watts, proprio come l’identità segreta di un supereroe. C’è la controparte femminile, parimenti interessante rispetto al protagonista e fatta di diversi caratteri memorabili – sia esteriori che interiori. La ripetizione dell’atto di collegarsi ad Oasis – suoni, colori, luci ed infondo il logo del gioco – si rifà al preciso intento di far entrare nell’immaginario collettivo il gesto di indossare un visore per la realtà virtuale.
L’utilizzo del linguaggio dell’ambito Nerd e Geek, in modo estremamente naturale – merito dell’adattamento italiano – accresce la personalità della pellicola. Il contorno di personaggi secondari, ciascuno con le sue peculiarità ben marcate e la suddivisione in fazioni, rendono Ready Player One un’opera in grado di coinvolgere lo spettatore, il quale ha l’illusione di identificarsi in qualcosa. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma la promessa della recensione è di non anticipare aspetti della componente narrativa, dunque chiudiamo qua il discorso.
Diversi spunti di riflessione di facile accesso
Ready Player One offre molti spunti di riflessione, assolutamente attuali e di facile accesso ad ogni tipo di spettatore. Non parliamo di riflessione sul piano dello stile – nel solco dei blockbuster, questo è quasi proibito – ma puramente sul piano del contenuto.
Il film pone l’accento, prima di tutto, sulla estenuante diatriba tra reale e virtuale. Cosa è meglio per l’uomo, per la crescita e per l’educazione? Ready Player One non dà una risposta precisa, se non un accenno verso il corretto equilibrio. Quello che la pellicola offre, è una pulce nell’orecchio che cammina senza faziosità: sta allo spettatore farsi la proprio opinione in merito.
Ready Player One fa anche di più, ed arriva a toccare tematiche che – stando alle attuali forze in atto – esploderanno nei prossimi anni. Si parla di schiavitù lavorativa per debiti, morte per il costo elevato delle spese mediche ed anche di degrado sociale ed edile. Non solo, i temi sui quali il film vuole che lo spettatore rifletta, raggiungono la privacy – il proprio comportamento dentro e fuori da Oasis – e l’importanza delle regole, dentro e fuori dai giochi.
Le differenze sostanziali dal libro, non necessariamente un male
Come ogni adattamento cinematografico di romanzi in prosa, ci sono stati dei rimaneggiamenti. Dopotutto, si parla di Steven Spielberg, non di Francois Truffaut. L’opera originale di Ernest Cline – autore inoltre dello screenplay del film – è stata spezzettata e rimescolata per venire incontro ad un pubblico ben più ampio rispetto a quello del libro. Molti aspetti , come giusto che sia, sono stati attualizzati – dunque vediamo la comparsa di videogiochi e brand che quando fu pubblicato il libro ancora non esistevano. Molti riferimenti sono stati riadattati, per venire incontro a precise richieste commerciali o a questioni legali legate ai diritti cinematografici.
Le prove, semplificate e adattate al grande pubblico
La struttura stessa delle prove di Anorak è stata stravolta, per essere di facile comprensione per un pubblico distaccato dal mondo dei videogiochi. In ogni caso, ci sono momenti che rimangono di non facile lettura per i meno esperti (immaginate dunque la natura proibitiva del libro). Nell’opera originale, le prove erano delle piccole – ma estremamente strutturate ed articolate – esperienze ludiche, gioia dei lettori più addentro al mondo del game design, come fruitori o creatori. Nel film, la dinamica delle prove è stata leggermente banalizzata e messa in secondo piano rispetto alle vicende personali di Wade Watts, con uno sviluppo più lineare e meno coinvolgente rispetto al libro.
Non è una critica necessariamente negativa: l’operazione serve a rendere il film di facile lettura per un pubblico più ampio, che viene così avvicinato ad un contesto nuovo e a delle tematiche importanti. Il lavoro di riadattamento non è un lavoro sartoriale venuto male, come Hollywood ci ha abituato negli ultimi anni, ma un bilanciatissimo lavoro di rielaborazione concettuale, il quale funziona splendidamente a schermo.
L’adattamento funziona, al costo della mancanza di coraggio
La produzione ha dovuto scegliere tra il creare un blockbuster e creare un opera con lo stesso target del libro. Nell’ottica di un investimento di proporzioni epiche, quale opzione scegliereste? Avremmo voluto più coraggio nel portare su schermo argento Ready Player One. L’ottica del profitto ha precluso una versione filmica matura e squisitamente Nerd, quale è la visione originale di Ernest Cline. In ogni caso, la pellicola funziona, seppur con una tono più gioioso e tratti meno crudeli. Si, anche il film è squisitamente Nerd, ma non ci lecchiamo i baffi come succede pagina per pagina con l’opera madre.
La rivincità del Game Designer, al quale è finalmente reso onore
I film che parlano di creatori di esperienze ludiche, si contano sulle dita, e in rarissimi casi viene usata l’espressione “game designer” – tantomeno negli adattamenti italiani. Ready Player One, per la prima volta nella storia del cinema, usa senza problemi la suddetta, a più riprese e con naturalezza. Dopo un quasi dimenticato Kevin Flynn, abbiamo un James Halliday che porta alla luce la splendida figura – lavorativa ed esistenziale – del Game Designer. Mitizzata, ma è finalmente reso chiaro che dietro alla esperienza ludica ci siano esperienze di persone vere – capaci di mettere in piedi enormi lavori di traduzione da materia umana a meccaniche di gioco.
Ready Player One permette di riflettere sul potere dell’esperienza ludica, del suo impatto sulla vita delle persone e della linea che separa nettamente la libertà totale dal divertimento. Il film vuole dirci che qualsiasi momento ludico è fatto di paletti e regole – i quali devono essere assimilati e sfruttati dalla mente umana per raggiungere un obiettivo, al fine di provare emozioni – e che l’intrattenimento fornito dall’assenza di regole è vuoto e di rapido esaurimento. In quanto Game Designer, non posso fare altro che gioire a nome della redazione. Ready Player One rappresenta il riscatto di una figura pressoché sconosciuta (soprattutto in Italia), o volutamente adombrata ed esautorata dalle case di produzione.