WhatsApp non è nuova ai problemi di privacy e alle polemiche derivanti da essi. Nel corso degli anni infatti, la celebre app di messaggistica istantanea ha ricevuto numerose critiche riguardo la sua politica di protezione dei dati personali degli utenti. Basti pensare allo scontro con le autorità indiane, dovuto alle nuove regole che impongono agli utenti di condividere i propri dati con Facebook, pena la limitazione del proprio account.
E adesso, una nuova polemica infuria su WhatsApp. La nota organizzazione no-profit ProPublica, che si pone il compito di realizzare del giornalismo investigativo di interesse pubblico, vincendo tra l’altro anche numerosi premi Pulitzer, ha pubblicato un lungo articolo dove denuncia la presunta ipocrisia di WhatsApp nel trattamento dei dati personali dei propri utenti.
ProPublica contro WhatsApp: i dettagli dell’accusa
Secondo ProPublica, il servizio di messaggistica violerebbe le sue stesse regole riguardanti la privacy degli utenti, monitorando ogni settimana milioni di messaggi inviati all’interno dell’app. Ricordiamo infatti che i vertici del social hanno dichiarato più volte nel corso del tempo che, né loro e né i dipendenti che lavorano all’applicazione, sono in grado di leggere i messaggi inviati dagli utenti.
Ciò però non corrisponderebbe al vero, come dichiarato da ProPublica infatti:
“WhatsApp ha più di 1.000 lavoratori a contratto che riempiono i piani di edifici per uffici ad Austin, Texas, Dublino e Singapore. Seduti ai computer […], questi lavoratori orari utilizzano uno speciale software di Facebook per setacciare milioni di messaggi privati, immagini e video.
Esprimono un giudizio su qualsiasi cosa lampeggi sul loro schermo – affermazioni su qualsiasi cosa, da frode o spam a pornografia infantile e potenziali complotti terroristici – in genere in meno di un minuto.”
Bisogna tuttavia precisare che i team predisposti all’analisi dei messaggi di WhatsApp possono accedere soltanto ai contenuti segnalati dagli utenti nelle chat:
“I lavoratori hanno accesso solo a un sottoinsieme di messaggi WhatsApp, quelli contrassegnati dagli utenti e inoltrati automaticamente all’azienda come potenzialmente offensivi. La revisione è un elemento di un’operazione di monitoraggio più ampia in cui l’azienda esamina anche il materiale non crittografato, inclusi i dati sul mittente e il suo account.”
Una volta che l’utente segnala un messaggio al team di WhatsApp, esso viene aggiunto in una sorta di coda insieme ai cinque messaggi precedenti nella conversazione, aggirando di fatto la crittografia end-to-end:
“I revisori di WhatsApp ottengono l’accesso a contenuti privati quando gli utenti premono il pulsante ‘segnala’ sull’app. Questa azione inoltra cinque messaggi – quello presumibilmente offensivo insieme ai quattro precedenti nello scambio, comprese eventuali immagini o video – a WhatsApp in forma non codificata, secondo ex ingegneri e moderatori di WhatsApp. I sistemi automatizzati quindi inseriscono questi ticket in code ‘reattive’ che i lavoratori a contratto devono valutare.”
Fonte: ProPublica.org.