Recentemente nei nostri cinema è approdato I Figli del Mare, l’ultimo meraviglioso lungometraggio di Ayumu Watanabe. Una pellicola lontana dalla formula più leggera e immediata con cui Makoto Shinkai ci ha coccolati recentemente, ma che non per questo va definita, come purtroppo è successo, come confusa o peggio ancora sconclusionata. Questo film un’ intenzione ce l’ha, tant’é che di fatto la spiega attraverso i suoi personaggi in maniera anche molto diretta, e quella sensazione di disagio e confusione che probabilmente avete provato durante la visione fa semplicemente parte di esso. Se però quel messaggio non vi è arrivato, allora le scuse valide sono soltanto due: la prima è che vi siete fatti abbindolare dallo stratosferico comparto visivo orchestrato da Watanabe, e la seconda, ahimé, è che durante i crediti avete abbandonato la sala.
Se rientrate nel secondo esempio, o peggio ancora se non avete visto il film, allora non proseguite fin quando non avrete rimediato. Quella che state per leggere è una di quelle riflessioni che si fanno con gli amici appena usciti dalla sala. Di quelle che si, contengono spoiler pesanti, ma che non mirano soltanto a narrare gli avvenimenti del film, quanto piuttosto ad unire tutti punti. Certo, escludere dalla discussione chi ha perso soltanto una cortissima scena dopo i crediti può sembrare esagerato, però quello è l’ultimo tassello… e senza di esso tutto il resto perde inevitabilmente significato.
Ruka è una ragazzina con enormi problematiche. La sua situazione familiare è disastrosa, e il disagio che prova si ripercuote sul suo carattere. Ed ecco quindi che fugge dai suoi problemi, da ciò che le causa dolore. Fugge dalla madre, dagli insegnanti, dalle amiche e dalla scuola. Fugge dal mondo. Nel suo animo regna lo stesso caos del mare e dell’universo con il quale si imbatterà più tardi, ed essendo incapace di fare chiarezza dentro di sé, allora semplicemente scappa via. La ragazzina non riesce a prendere la vita di faccia. Ha problemi ad esprimere quello che sente.
Per questo le balene la affascinano: perché riescono senza l’uso delle parole a comunicare in modo chiaro ed inequivocabile i loro sentimenti. Ed è nel momento in cui si sente più smarrita che conosce Umi e Sora. Ruka vuole conoscere il mondo degli abissi, vuole osservare i pesci danzare in acqua. Perché loro sono liberi. Non devono badare a nulla se non sopravvivere. Non devono pensare allo status sociale, a colmare l’assenza dei propri genitori o ad calpestare il proprio orgoglio e finalmente chiedere scusa. Ma soprattutto non devono pensare ad articolare i propri pensieri. Quelli sono lì e viaggiano nel mare, limpidi ed inalterati, sino a raggiungere tutti gli altri. Non possiamo saperlo con certezza, ma Ruka vorrebbe essere come loro, ed è per questo che è stata scelta.
Questo concezione della linguistica come un qualcosa di insufficiente – quest’idea di fondo che le parole sono nulla fuorché limitate – è la colonna portante della narrazione di stampo esistenzialista di Daisuke Igarashi, e osservando bene noteremo che si applica tanto nel singolo che nell’insieme. Se io non so chi sono e non so da dove vengo; se non ho la più pallida idea di ciò che sto provando, non posso farmi capire dagli altri. Ma soprattutto, il caos che regna dentro di me, quell’insieme inquantificabile di emozioni, pensieri e sensazioni che provo, per quanto mi sforzi, non può né mai potrà essere espresso nella sua forma più pura attraverso le parole.
Se l’uomo è simile all’universo, e se l’universo e il mare sono profondamente legati, allora in quel fatidico momento sott’acqua Ruka non è soltanto al cospetto di questi due incomprensibili giganti, ma è anche e soprattutto al cospetto di se stessa. Si sta guardando dentro, e quello che vede è il disordine più totale. Un misto di forme e suoni che il suo cervello non riesce ad associare a nulla di familiare. Poi, tutto d’un tratto, dal caos nasce un qualcosa. Non soltanto un nuovo universo, infinito tra l’infinità. Non soltanto una nuova stella, un nuovo mare e un nuovo ciclo. Nasce anche una nuova Ruka più consapevole di se stessa.
Quello è l’attimo nel quale scatta un qualcosa, il momento per cui è nata questa storia: per mostrare quella drastica ma improvvisa evoluzione che avviene dentro di noi, ora a contatto con il mondo e con la natura ma soprattutto con noi stessi. I Figli del Mare si pone l’impossibile obbiettivo di descrivere ciò che non può essere descritto, e fateci caso: lo fa senza utilizzare le parole. Si prende la briga di denudare il tumultuoso animo umano – specchio di un qualcosa che non possiamo spiegare – e se nel farlo non fosse disorientante; se nel farlo non riuscisse a metterci a disagio, allora starebbe fallendo miseramente.
Ripetiamolo insieme: non servono parole, né tanto meno serve spiegare chiaramente ciò che è successo. Igarashi non vuole darci risposte, non vuole spiegarci come funziona il mondo. Piuttosto vuole concentrare la sua attenzione sul singolo, sull’individuo. Chi sono? Da dove vengo? Cosa sto provando? Non serve dirlo. Basta capirlo e agire di conseguenza. Per chiedere scusa a chi abbiamo ferito, come vediamo nella famosa scena post-crediti, basta uno sguardo. Basta un gesto, simbolo di un nuovo atteggiamento e approccio alla vita.
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