Uno dei maggiori obiettivi, se non addirittura il principale obiettivo, della politica di dazi di Donald Trump è quella di riportare negli Stati Uniti la catena produttiva di iPhone . Se la politica commerciale aggressiva in atto dovesse convincere Apple a spostare la produzione dei melafonini entro i confini federali, allora il Presidente USA otterrebbe una importante vittoria politica e dall’alto valore simbolico.
Infatti, l’obiettivo perseguito da Trump e dal Governo federale è quello di far ritornare “americane” le industrie manifatturiere che, nel tempo, hanno preferito spostare la propria produzione all’estero. Così facendo si punta anche da ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dai Paesi stranieri.
Eppure la realtà dei fatti sembra discostarsi sensibilmente dal progetto dell’attuale Amministrazione americana. Tutto ciò perché risulta molto difficile invertire gli effetti della politica di delocalizzazione attuata dalla maggior parte dei governi mondiali, in virtù di limiti strutturali dell’industria e del mercato.

L’irrealizzabile iPhone “made in USA” di Donald Trump
A rendere irrealizzabili le mire del Presidente USA sono principalmente tre fattori: la carenza di manodopera specializzata negli Stati Uniti, un’infrastruttura troppo debole per sopportare la produzione di iPhone e l’assenza di un ecosistema industriale capillare paragonabile a quello presente in Asia.
Questo è quello che emerge da una recente analisi economica condotta da Mark Gurman, le cui conclusioni non sono meno incoraggianti: secondo l’analista non esisterebbe la possibilità concreta che Apple possa trasferire la linea produttiva di iPhone in America.
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Il sistema industriale non capillare
A pesare molto è l’ecosistema industriale necessario a sostenere la catena produttiva. Tralasciando il nuovo impianto di assemblaggio voluto da Apple in India per proteggere la catena di approvvigionamento, si pensi solo alla città industriale di Zhengzhou, in Cina.
L’agglomerato urbano, soprannominato ironicamente “iPhone city”, concentra centinaia di migliaia di lavoratori specializzati nella costruzione di apparecchi elettronici in gigantesche mega-fabbriche dotate di servizi essenziali, quali dormitori, scuole, palestre e ospedali.
Come ha puntualizzato Matthew Moore, ex ingegnere di Apple, è come se Boston (una città che conta 500 mila abitanti) d’improvviso si fermasse per dedicarsi esclusivamente alla costruzione di smartphone.

L’assenza di capitale umano specializzato
Anche qualora Boston divenisse una nuova “iPhone city”, mancherebbe comunque la manodopera specializzata. Infatti, una delle risorse più utili esistenti in Asia è proprio il capitale umano formato proprio allo scopo di costruire i melafonini.
Ciò sembra confermato da un’intervista rilasciata da Tim Cook ormai nel 2017, in cui egli giustificata la scelta della Cina come sede per la costruzione dei prodotti di Apple per via della concentrazione delle competenze nel territorio, non per la manodopera a basso costo.
Sempre secondo Moore, per spostare l’intera catena produttiva negli Stati Uniti non basterebbe assumere tutte quante le persone che si sono laureate nelle materie STEM negli Stati Uniti. L’ingegnere evidenza una drastica carenza nel numero di persone aventi competenze specifiche.

L’India come valida alternativa
Un’ipotesi ben più realizzabile, seppur comunque difficile, consiste nel trasferimento di parte della produzione dalla Cina all’India. Proprio nella penisola indiana Apple ha investito numerose risorse per costituire un nuovo polo di produzione alternativo a quello cinese.
Il centro indiano necessita di essere potenziato: allo stato attuale produce circa 35 milioni di smartphone ogni anno, sufficienti a coprire parte del “fabbisogno” statunitense, ma comunque molto inferiore ai più di 220 milioni di iPhone che vengono venduti annualmente in tutto il mondo.
