La celebre catena di fast food statunitense, McDonald’s, ha deciso di fare marcia indietro sulle cosiddette “politiche woke”, ossia quelle linee politiche interne afferenti ai temi di DEI (Diversity, Equity, Inclusion, ossia Diversità, Uguaglianza, Inclusione).
La particolare scelta sembra l’ennesima conseguenza legata alla rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti d’America e oramai prossimo ad insediarsi nuovamente nello studio ovale. In realtà, la decisione sembra legata a una recente sentenza della Corte Suprema Federale che ha sanzionato l’utilizzo della cosiddetta “discriminazione positiva”.
Inutile dire che il dietrofront di McDonald’s ha suscitato reazioni contrapposte: da una parte chi si dice felice di questo “ritorno al buonsenso”, dall’altra chi protesta affinché le linee DEI vengano mantenute.
Il dietrofront di McDonald’s sulle politiche “woke”
Con l’abbandono delle linee guida DEI da parte del celebre colosso della ristorazione americana si collegano tutta una serie di conseguenze. In primo luogo, McDonald’s si slega da tutti gli obiettivi legati alla rappresentanza diversificata (in parole povere, la presenza di personale non bianco) nei ruoli dirigenziali della società.
Anche l’ufficio interno per la diversità, ossia l’ufficio preposto a incentivare e a vigilare e sugli obiettivi di rappresentazione diversificata, cambierà struttura, partendo proprio dal nome che diventerà “Global Inclusion Team”.
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Sensibili modifiche si registrano anche nei rapporti esterni della società. Per esempio, i fornitori del noto fast food non saranno più obbligati da contratto a rispettare le regole di diversità, uguaglianza e inclusione nel proprio personale, in aggiunta McDonald’s non parteciperà più ai sondaggi esterni che misurano il “grado di diversità” all’interno delle aziende.
In una nota inviata al personale, il colosso della ristorazione ha giustificato questo improvviso cambio di passo con il “mutevole panorama giuridico” che “potrebbe avere un impatto sull’azienda”. McDonald’s sembra qui riferirsi a una recente pronuncia della Corte Suprema Federale americana che ha dichiarato illegittimo il ricorso alla “discriminazione positiva” nelle ammissioni universitarie.
Per “discriminazione positiva” si intende una discriminazione basata sulla razza, sull’orientamento sessuale, sul genere, sulla religione o su altri elementi volta a favorire determinate minoranze al fine di raggiungere – nel caso di specie, nelle università – un maggior grado di inclusione.
Inutile dire che la discriminazione positiva si traduce automaticamente in una discriminazione ingiusta contro la maggioranza della popolazione americana (la quale si vede sfavorita solo per una questione di razza, sesso, orientamento sessuale e via discorrendo) e si risolve in una violazione del principio di uguaglianza sancita dalla Costituzione americana.
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