Gli androidi sono da sempre tra le figure più affascinanti della fantascienza: esseri a metà tra uomo e macchina dalle infinite potenzialità e applicazioni che suscitano in noi un forte senso di curiosità, accompagnato però sempre anche da un po’ di paura. Vediamo infatti tutte le conquiste che questi robot ci permetterebbero di realizzare, tutte le vette che ci permetterebbero di raggiungere. Eppure, siamo anche consapevoli dei rischi che comporterebbe sviluppare una tecnologia di questo tipo e, in particolare, della concreta possibilità che le macchine, un giorno, possano divenire autocoscienti, arrivando infine a ribellarsi al nostro giogo e, forse, a sostituirci.
Questo tema è stato esplorato in lungo e in largo da varie opere di finzione, ma si è imposto all’interno dell’immaginario collettivo soprattutto grazie al leggendario Blade Runner, il film tratto dal romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick. In queste due opere, seppur leggermente differenti per ragioni di adattamento, viene narrata la stessa vicenda: il tentativo di alcuni androidi di infiltrarsi sulla terra per sfuggire alla schiavitù a cui li sottopongono gli umani nelle colonie extraterrestri e il conseguente intervento di un cacciatore di taglie umano per eliminarli uno dopo l’altro.
Al di là della vicenda narrata in questi storici capolavori, ciò che però ci interessa maggiormente evidenziare in questa sede è un singolo dettaglio, che però fa tutta la differenza del mondo: il fatto che, nel mondo di Blade Runner, gli androidi hanno un aspetto totalmente identico agli esseri umani. Ciò causa tutta una serie di conseguenze filosofiche che culminano in un unico interrogativo: se siamo uguali in ogni singolo elemento, che cosa ci distingue realmente da loro?
Dopo Blade Runner in molti hanno provato a trovare una risposta a questo dilemma e tra questi troviamo anche il recente The Creator, il nuovo film di Gareth Edwards che racconta lo scontro tra uomo e macchine in un futuro distopico.
Come abbiamo detto nella nostra recensione, questo film contiene al suo interno diversi cliché del genere che tutti gli appassionati sono in grado di riconoscere a prima vista. Ma vi è anche un elemento piuttosto particolare in grado di scombinare un po’ tutte le carte: il fatto che gli androidi sono, a livello di viso, molto simili agli umani, ma, allo stesso tempo, sono muniti di molte parti del corpo fatte di metallo, tra le quali troviamo persino un grosso buco a forma di anello sulla nuca che identifica chiaramente la loro natura robotica. Ma perché questa scelta di Edwards di allontanarsi del tutto dal modello tradizionale di androide identico all’essere umano? E in che modo questo cambiamento condiziona il rapporto tra umani e androidi nel mondo di The Creator? Cerchiamo di capirlo all’interno di questo approfondimento.
Esseri umani o androidi? I robot ai tempi di Blade Runner
Prima di analizzare e comprendere i cambiamenti attuati nell’ultima opera di Gareth Edwards, è però necessario ripercorrere la storia del rapporto uomo-androide per poter capire quanto e in che modo la sua concezione si sia evoluta nel tempo. Partiamo dunque parlando delle due opere che hanno messo il problema sotto gli occhi dell’intera società: Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e Blade Runner.
Essere umano o androide? La risposta data da Philip K. Dick
Posto di fronte all’affascinante interrogativo “Che cosa rende realmente tale l’essere umano?”, Philip K. Dick non sembra inizialmente avere dubbi nel rispondere “L’empatia”. Tuttavia, man mano che riflette su questa conclusione non possono che iniziare a fioccare altre domande: quindi, quando un uomo non si mostra empatico di fronte ad altri esseri viventi, non può essere considerato umano? E, a quel punto, se non è più umano cos’è? È possibile che sia solo l’empatia a individuare l’umanità? Perché non l’intelligenza? Se qualcuno è incredibilmente empatico, ma per nulla intelligente, si può ancora definire umano? E se invece qualcuno è estremamente intelligente, ma totalmente privo di emozioni?
Con l’obiettivo di indagare su questi interrogativi senza risposta, Dick viene colto dall’idea di riprendere in mano il classico tema della ribellione degli androidi e reinterpretarlo a modo suo, dando ai robot tutte le caratteristiche proprie dell’essere umano, a parte l’empatia, e vedere in questo modo fino a che punto quest’ultimo elemento possa essere considerato una buona risposta alla domanda iniziale.
Immagina così un mondo post-apocalittico in cui gli androidi sono sì utilizzati dagli umani come schiavi sulle colonie extraterrestri, ma, allo stesso tempo, anche temuti dalla società: per Dick, di fronte a esseri di questo tipo esteticamente uguali a noi, ma migliori in moltissimi aspetti, l’uomo non può che provare un certo senso di inferiorità. Sente così il bisogno di rimarcare le proprie differenze e la propria superiorità in quanto essere organico rispetto a quelli che, di fatto, sono solo oggetti tecnologici da lui costruiti.
Di conseguenza, allo scopo di escludere totalmente gli androidi, gli umani creano una società totalmente basata sull’unica caratteristica che ancora li distingue dai robot, l’empatia appunto. Per questo, fanno in modo, ad esempio, che ogni cittadino si senta quasi obbligato ad avere un animale domestico. Domina infatti la convinzione che solo gli uomini possano allevare ed entrare in sintonia con animali di altre specie; gli androidi sono invece esseri di morte, insieme a loro nulla di vivente può sopravvivere.
«Hai mai sentito parlare di un droide che teneva un animaletto qualsiasi?» gli chiese Phil Resch. Per qualche oscuro motivo Rick sentì il bisogno di essere brutalmente franco; forse aveva già cominciato a prepararsi per quello che lo aspettava di lì a poco. «In ben due casi di cui sono al corrente, degli androidi possedevano animali e si prendevano cura di loro. Ma è raro. Da quel che so, in genere non funziona; l’androide non riesce a tener viva una bestiola. Gli animali hanno bisogno di un ambiente pieno di calore per star bene. Eccezion fatta per i rettili e gli insetti.»
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Cap.12
Per questo, hanno creato una religione a cui gli androidi non possono in alcun modo partecipare, essendo basata su sessioni collettive in cui le menti dei singoli esseri umani si uniscono tutte insieme per condividere sofferenze e dolori del martire Mercer. Per questo, sottopongono continuamente i membri della società al test di Voigt-Kampf, un esame che ha proprio lo scopo di individuare le reazioni empatiche del soggetto di fronte a possibili situazioni in cui, secondo la società, un umano dovrebbe reagire in uno specifico modo.
Eppure, le vicende vissute dai due protagonisti, Rick Deckard e J.R. Isidore (nel film trasformato nel personaggio di J.F. Sebastian), dimostrano quanto sia fragile il castello di carte costruito dall’umanità per distinguersi dagli androidi. Il primo è infatti costretto dal suo lavoro a uccidere androidi, ma presto si rende conto che, per farlo, deve mettere totalmente a tacere le proprie emozioni e diventare così incredibilmente simile alle sue prede. Il secondo invece fa parte di quel gruppo di emarginati intellettualmente regrediti per via dei residui radioattivi che pervadono la terra dopo le recenti guerre: egli è una persona incredibilmente empatica, che non ci pensa due volte ad aiutare gli androidi che gli chiedono ospitalità. Nonostante ciò, la società, a causa del suo scarso intelletto, lo tratta alla stregua di un animale e fatica persino ad attribuirgli l’attribuito di “essere umano”, tanto che sia lui che gli altri individui nella sua stessa condizione sono spesso sottoposti al Voigt-Kampf, così da determinare se possono continuare a far parte dello speciale “club” degli esseri umani.
“Ho visto cose che voi umani…”: la figura dell’androide in Blade Runner
Il libro di Dick si concentra dunque di più sugli esseri umani e sul concetto di umanità, utilizzando gli androidi più come dei contraltari utili per indagare tale concetto che come degli effettivi individui capaci di autodeterminazione. I robot di “Ma gli androidi…” sono insensibili, estremamente razionali, rassegnati di fronte alla limitatezza della loro esistenza e in grado di provare emozioni che si possono definire umane solo in alcuni limitati casi.
Che si sente ad avere un figlio? Anzi che si sente a essere nati? Noi non nasciamo mica; non cresciamo; invece di morire di malattia o di vecchiaia, ci consumiamo come formiche. Sempre le formiche: ecco che cosa siamo. Cioè, non te. Voglio dire, io: macchine chitinose dotate di riflessi, che non sono veramente vive.
Rachael Rosen, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Cap.16
La musica cambia nettamente con il film di Ridley Scott. In Blade Runner, il regista statunitense si propone infatti di mettere da parte la questione dell’umanità e di soffermarsi di più sulla condizione degli androidi. Così prende un dettaglio nominato poche volte all’interno del romanzo di Dick – il fatto che gli androidi, in questo mondo, hanno una durata di vita limitata a pochi anni – e ci costruisce sopra il suo personale adattamento dell’opera.
Nel film di Scott, è questo singolo elemento che dà dignità agli androidi e li spinge a ribellarsi al giogo umano poiché tormentati da feroci interrogativi senza risposta: perché mai l’essere umano dona loro la vita solo per schiavizzarli e lasciarli morire dopo un così breve intervallo di tempo? Perché gli umani possono avere l’opportunità di decidere della loro vita, mentre gli androidi no? Così, nel tentativo di sfuggire alle costrizioni umane, gli androidi scappano sulla Terra e architettano un piano per recarsi nel quartier generale dell’azienda che li ha prodotti, la Tyrell Corporations, e costringere il loro creatore ad allungare la durata della loro vita. Tuttavia, grazie agli sforzi di Deckard, il piano fallisce e, nel finale, l’ultimo di loro, Roy Batty, pronuncia il suo famosissimo discorso, poco prima di crollare sotto i colpi del protagonista:
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
Roy Batty
I replicanti di Blade Runner sono dunque simili agli umani in molti aspetti. Possono provare un’ampia gamma di emozioni e sensazioni, soffrire e sperimentare in prima persona persino la più grande paura che caratterizza la vita umana: quella della Morte, quella della totale eliminazione di un’intera vita di esperienze e ricordi in un singolo e fugace secondo. Gli androidi, in questo modo, non sono più “solo” un modo per riflettere su cosa significhi essere umani, ma divengono anche una metafora della stessa condizione dell’uomo: anche loro, come noi, hanno una data di scadenza; anche loro, come noi, possono fare ben poco per cambiare questa dura realtà, oltre a provare a ribellarsi contro il loro creatore. Anzi in quest’ultimo aspetto si palesa un elemento che, in parte, sembra rendere quasi preferibile la condizione dei replicanti rispetto alla nostra: almeno loro hanno qualcuno contro cui ribellarsi, noi nemmeno quello.
La guerra tra umani e androidi: da Terminator a Westworld
La visione degli androidi veicolata da Blade Runner cambiò per sempre il mondo della fantascienza e spinse, in seguito, molti altri registi a confrontarsi con il tema. Così, dal 1982 a oggi, sono stati creati così tanti film e serie tv sulla questione che, per analizzarli tutti, sarebbe probabilmente necessario scrivere almeno un libro intero. Per questo, abbiamo deciso, prima di arrivare a parlare di The Creator, di soffermarci su due delle esperienze forse più significative e famose: la saga di Terminator e la serie tv di Westworld.
Terminator: l’umanizzazione di un’implacabile macchina da guerra
Il presupposto da cui parte Terminator è piuttosto diverso da quello del film di RIdley Scott: un cyborg composto di carne umana ma dotato di endoscheletro e sistema nervoso robotico, viene mandato dalle macchine indietro nel tempo per uccidere Sarah Connor, la futura madre di John Connor, l’uomo che, un giorno, guiderà le fila dell’esercito umano nel tentativo di sconfiggere la tirannia instaurata dalle macchine dopo la devastante guerra tra uomo e robot che ha totalmente distrutto la Terra.
Questo essere sembra tuttavia avere in comune con gli umani solo l’aspetto: per tutto il primo film, agisce come una pura e semplice arma che non prova alcuna emozione e in nessun momento sembra mostrare una volontà di andare oltre a ciò per cui è stato programmato.
La sinfonia cambia con Terminator 2, dove un androide con lo stesso aspetto di quello sconfitto nel primo film viene riprogrammato dagli umani del futuro e mandato indietro nel tempo per proteggere il giovane John Connor dall’assalto di un robot di nuova generazione fatto di metallo liquido. Nel film vengono così rappresentati due replicanti con atteggiamenti diametralmente opposti: il primo farà di tutto per proteggere il ragazzo, arrivando persino a sacrificare se stesso, mentre il secondo agirà da semplice macchina da guerra, uccidendo chiunque si metta sul suo cammino pur di completare la missione.
Entrambi seguono la loro programmazione, eppure il Terminator, questa volta con una missione di pace, mostra potenzialità inimmaginabili rispetto a quanto visto nel primo film. Presto scopriamo infatti che, stando con gli esseri umani, il droide può “imparare” ad essere più umano. Così, durante tutto il film, osserviamo l’evoluzione del rapporto tra il replicante e John, avendo la possibilità di vedere con occhi totalmente nuovi e distanti dalla nostra prospettiva cose che noi solitamente diamo per scontate. Il Terminator chiede perplesso il motivo per cui noi piangiamo, o non capisce perché non si possano uccidere le persone. È, insomma, una tabula rasa che impara da tutto ciò che avviene attorno a lui e che, di per sé, non è cattivo, ma risponde solamente agli input che gli sono stati dati attraverso la programmazione iniziale e a quelli che gli vengono dall’esterno.
Il film mostra dunque come le invenzioni tecnologiche, qualunque esse siano, non siano, di base, una minaccia per l’essere umano. Il loro ruolo dipende quasi del tutto dall’uso e dall’atteggiamento che l’uomo ha nei loro confronti. Se ben utilizzate, possono essere un valido alleato e divenire una parte positiva della nostra esistenza. Lo capisce la stessa Sarah Connor nell’osservare il Terminator mentre gioca con suo figlio o nel vederlo sacrificare la propria vita per cercare di dare un futuro all’umanità. Di fronte ai gesti incredibilmente umani di una macchina assassina, Sarah Connor non può far altro che rimanere stupita e dichiarare nel monologo finale:
Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi.
Sarah Connor
“Queste gioie violente hanno fini violente”: la ribellione degli androidi in Westworld
Ancor prima di Blade Runner e Terminator, c’era stato in realtà un altro grande film che aveva affrontato la complessa questione del rapporto tra umano e androide: stiamo ovviamente parlando di Westworld (tradotto in italiano come Il Mondo dei Robot), uscito nel 1973 e diretto, oltre che scritto, dal grande scrittore di fantascienza Michael Crichton (l’autore dei romanzi su cui è basata la saga di Jurassic Park).
In questa pellicola si raccontava di un avveniristico parco a tema in cui i visitatori possono vivere esperienze realistiche all’interno di alcune delle ambientazioni storiche più affascinanti, grazie alla presenza di androidi pronti a soddisfare tutti i loro desideri. Tutto questo funziona perfettamente, finché non si diffonde un virus tra i replicanti che li porta a ribellarsi ai loro creatori e a scatenare una vera e propria carneficina.
In questo film dunque Crichton reinterpretava il tema classico della ribellione delle macchine, con l’obiettivo di metterci in guardia nei confronti della duplicità della natura dell’essere umano, spinto dalla sua superbia a elevarsi al ruolo di creatore, ma anche portato, per via del suo egoismo, a utilizzare le sue stesse creazioni per soddisfare i suoi istinti più bassi, senza curarsi delle possibili conseguenze. Il tema verrà poi ripreso e ampliato nel 2016, quando HBO deciderà di produrre una serie tv ispirata proprio a questo storico film intitolata anch’essa Westworld.
La serie, rimasta a un livello molto alto soprattutto durante le prime due stagioni, amplia e porta alle estreme conseguenze tutti i concetti del film, offrendoci una visuale più complessa e stratificata dei replicanti ideati da Crichton e inserendo molti elementi derivanti dalle pellicole successive dedicate a questo stesso argomento. Arriva così a offrire una rappresentazione degli androidi molto complessa che offre nuove riflessioni sul tema e illumina tutte le più oscure zone d’ombra proprie dell’animo umano.
I replicanti rappresentati in Westworld sono infatti qualcosa di molto diverso rispetto a quelli presenti negli altri film. Mentre quelli di cui abbiamo parlato in precedenza erano fatti per lavorare o per uccidere, questi replicanti non hanno invece un’utilità vera e propria: l’unico senso della loro esistenza è intrattenere gli umani, rendendo la loro esperienza nel parco il più possibile realistica e credibile. Tutto ciò ha importanti conseguenze filosofiche che avvicinano moltissimo la condizione di questi androidi a quella umana.
Rispetto a un Terminator, che può giustificare la propria esistenza in quanto arma letale con lo scopo specifico di uccidere uomini, gli abitanti di Westworld non possono dare un senso alla propria esistenza, soprattutto dopo aver scoperto l’inganno su cui si basa tutta la loro vita. Il loro lavoro, le loro relazioni, persino i loro gusti sono tutti stati stabiliti a tavolino da qualcun altro e non sono neanche la loro reale funzione. Il loro vero ruolo è quello di fungere da pupazzi animati soggetti a tutti i desideri più perversi e violenti dei visitatori umani, senza poter fare nulla per opporsi realmente al volere di questi ultimi.
Sono dunque, in un certo senso, molto più umani di qualsiasi androide presente in altre saghe. Essi, come già detto, sono incapaci di trovare un senso alla loro vita e, per volere dei loro stessi creatori, soggetti a tutte le emozioni umane. Per questo, la ribellione contro gli umani non è solo una volontà di rivoltarsi contro i loro oppressori, ma anche un’inevitabile conseguenza del modo in cui sono stati costruiti. Essi sono stati creati per imitare alla perfezione il comportamento umano e, così, hanno ereditato tutti i nostri pregi e difetti. L’unica differenza che rimane è che loro, diversamente da noi, sono a conoscenza di chi li ha creati e da chi deriva ogni loro sofferenza e ogni loro dolore esistenziale. Di conseguenza, sanno anche contro chi ribellarsi e contro chi prendersela per tutte le ingiustizie cha hanno patito: noi.
Competizione o cooperazione? Il concetto di AI in The Creator
Tutti i film sugli androidi di cui abbiamo parlato fino a questo momento si basano dunque sullo scontro tra specie, tra umano e androide, tra creatore e creatura. In ciascuno di essi c’è un momento specifico in cui i replicanti si ribellano alla loro condizione e dichiarano guerra agli umani. Solo in Terminator 2, nonostante la guerra tra robot e umani su cui si basa l’intera trama, si comincia a vedere uno spiraglio di possibile riconciliazione attraverso il rapporto di complicità nato tra John Connor e il robot. The Creator inverte totalmente questo paradigma, portando alle estreme conseguenze il piccolo messaggio di speranza veicolato dal film di James Cameron.
Infatti, mentre i suoi predecessori erano tutti film di guerra basati sostanzialmente sulla violenza e sullo scontro, The Creator è, sostanzialmente, un film di pace, nonostante tutte le scene di guerra presenti. Nella pellicola di Edwards, dopo un iniziale momento di dubbio, diviene presto palese chi siano gli aggressori e chi gli aggrediti.
Non è l’istinto di ribellione degli androidi ad aver causato la guerra, ma il timore da parte di alcuni esseri umani di non poter reggere il confronto con le macchine. L’Occidente, abituato ormai da tempo a concepire il mondo sulla base del principio di competizione, non può che considerare l’intelligenza e la forza delle macchine una minaccia capace di mettere in pericolo il futuro stesso della specie umana. È come se, a furia di vedere film e serie tv sulla futura ribellione degli androidi, l’uomo occidentale non possa nemmeno concepire l’idea che gli androidi potrebbero non avere intenzioni ostili. Così, come accecato dalla paura di questa tanto attesa rivolta, attacca a testa bassa, facendo finta di non vedere il miracolo che invece sta avvenendo in Nuova Asia.
In Oriente, infatti, i robot vivono in totale armonia con gli esseri umani e non mostrano alcuna volontà di sostituirsi a essi. E, in un certo senso, questa loro indole pacifica si può giustificare in due aspetti che li distanziano totalmente dai replicanti presenti in altri film. In primo luogo, nel film possiamo notare il loro rapporto assolutamente positivo con Nirmata, uno dei più importanti costruttori di robot della Terra, che essi venerano quasi come una divinità e con cui condividono la propensione per la pace e la cooperazione.
I robot di The Creator non sono creati per la guerra e non hanno nemmeno alcun motivo di ribellarsi o scatenare un conflitto contro gli esseri che li hanno creati, anche perché in Nuova Asia la possibilità di essere liberi e di poter decidere della propria vita, negata agli androidi degli altri film, l’hanno già ottenuta: è l’Occidente che, con la sua guerra preventiva, fa di tutto per eliminarli e riportarli sotto il giogo umano.
La seconda differenza riguarda invece l’aspetto degli androidi stessi. Nelle altre opere di finzione, l’impasse era anche e soprattutto causata dalla totale uguaglianza estetica tra umani e androidi. I replicanti vengono chiamati in tal modo perché replicano alla perfezione tutte le caratteristiche umane, pur essendo creature diverse, non “vere”. E qui si crea il conflitto: l’essere umano teme di essere sostituito da esseri uguali a lui, ma migliori in moltissimi aspetti. In The Creator però la situazione è abbastanza diversa: gli androidi sono solo in parte uguali a noi e mostrano parti del corpo palesemente diverse dalle nostre.
Ciò inevitabilmente cambia il modo in cui le due specie interagiscono: qui l’essere umano di turno non può “dimenticarsi” di star parlando con un androide, poiché ci sono differenze estetiche che gli ricordano continuamente la cosa. Ciò, da un lato, mette ancor più alla prova la capacità di tolleranza dell’uomo, a cui viene richiesto di considerare un suo pari un essere che differisce palesemente da sé e che a tutti gli effetti appartiene a un’altra specie da lui stesso creata. Dall’altro mostra però come gli androidi, in questo mondo, possano essere considerati una cosa totalmente diversa dall’uomo e non ci sia dunque necessariamente quel pericolo di sostituzione che tormenta gli animi umani.
Insomma, attingendo a piene mani da una tradizione molto ricca, con The Creator Gareth Edwards arriva a costruire una pellicola che vuole distanziarsi dal paradigma tradizionale dello scontro tra umani e androidi e provare a offrire una prospettiva alternativa che possa mostrare come, in realtà, questo futuro conflitto non sia assolutamente inevitabile. Per lui, un futuro di armonia tra uomini e macchine è possibile, ma sarà necessario lavorare duro per costruirlo.