“Noi siamo quelli veri, loro solamente programmazione“: questo è il pensiero fisso riguardo alle AI della maggior parte degli abitanti del mondo di The Creator, il nuovo film di Gareth Edwards, l’acclamato regista di Rogue One, e anche molti di noi, osservando l’evoluzione contemporanea dei nuovi sistemi di intelligenza artificiale, spesso si ritrovano a pensarla allo stesso modo. Gli eventi degli ultimi tempi ci preoccupano, l’idea che un’intelligenza artificiale possa fare quello che facciamo noi, ma meglio e in maniera più efficiente, ci terrorizza.
Di conseguenza, di fronte ai recenti sviluppi nel campo della AI, non possono che tornare attuali interrogativi simili a quelli che già nel 1968 avevano spinto il grande autore di fantascienza Philip K. Dick a scrivere “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?“, il romanzo da cui in seguito venne tratto uno dei film sci-fi più influenti della storia, ovvero Blade Runner: quando costruiremo intelligenze artificiali intelligenti ed emotive quanto e più di noi, in che modo ci comporteremo nei loro confronti? Saremo in grado di convivere pacificamente, oppure, guidati dal nostro solito egoismo, non faremo altro che opprimerle e sfruttarle per le nostre necessità? Ma soprattutto: sulla base di cosa potremo ancora considerarci in qualche modo diversi da loro? A quel punto, quale sarà il confine sulla base del quale potremo decidere chi considerare una persona con i nostri stessi diritti e chi no?
Per indurci a riflettere ulteriormente su questi laceranti interrogativi, Gareth Edwards costruisce un film di fantascienza che non parla, come molti altri, di mondi lontani o di alieni incredibilmente distanti da noi, ma della nostra Terra e dei conflitti che un giorno potrebbero avvenire tra robot dotati di intelligenze artificiali incredibilmente e umani terribilmente spaventati di poter essere soppiantati.
Ma sarà riuscito Gareth Edwards a rispettare le aspettative e a creare un film che alterni perfettamente azione, ambientazioni fantascientifiche e dialoghi ricchi di risvolti filosofici?
Un mondo lacerato da giganteschi conflitti
Terra, 2065. Dopo che le AI hanno, per un motivo non ben precisato, disintegrato Los Angeles utilizzando una bomba atomica, le due parti in cui è suddiviso il mondo, Occidente e Nuova Asia, si trovano a scontrarsi militarmente per la diversa politica che vogliono applicare nei confronti dei robot: i primi vogliono sterminarli tutti, perché convinti che siano una minaccia per l’intera specie umana; i secondi invece spingono per l’integrazione e la convivenza pacifica tra le due specie.
Per vincere questa difficile guerra contro le AI, l’Occidente crea la più grande arma mai esistita: la stazione spaziale Nomad, una gigantesca nave in grado di solcare l’atmosfera terrestre e lanciare devastanti missili sulle zone su cui si posiziona e su quelle circostanti. La potenza di questa incredibile arma ribalta le sorti del conflitto e porta le AI sull’orlo della sconfitta, causando morte e devastazione in tutta la Nuova Asia. Per questo motivo Nirmata, il leggendario costruttore di androidi, decide di creare un’arma suprema con cui distruggere per sempre Nomad e riportare le AI in vantaggio.
Immerso suo malgrado in questo scenario politico e militare così complesso, Joshua Taylor, militare in congedo dopo aver perso la moglie e aver, allo stesso tempo, fallito una missione sotto copertura, in cui aveva l’obiettivo di catturare proprio Nirmata, è costretto a tornare in azione per via della recente individuazione della posizione dell’arma segreta anti-Nomad. Tuttavia, una volta arrivato sul posto, scoprirà che essa è in realtà un androide con l’aspetto di una bambina e, impietosito, la porterà via con sè, ritrovandosi così a divenire un fuggitivo in terra straniera, a cui danno la caccia sia gli androidi, che vogliono riavere la loro arma, sia gli occidentali, che vogliono distruggerla per sempre.
La commovente storia di un uomo e di una bambina robot
Il film racconta dunque l’evoluzione del rapporto tra Taylor, interpretato da John David Washington, e la piccola androide, da lui successivamente rinominata Alfie, interpretata da Madeleine Yuna Voyles, costretti a fuggire fianco a fianco in un mondo che dà loro la caccia e su cui incombe la minaccia continua di Nomad, che dall’alto tiene sempre sotto scacco i territori della Nuova Asia.
Taylor è un personaggio ben costruito e credibile, di cui gradualmente ci viene svelato il passato oltre che la sua tendenza a essere estremamente deciso, testardo e sempre pronto a sacrificare tutto pur di rivedere anche solo per un secondo la moglie Maya, interpretata da Gemma Chan. Durante il suo viaggio dovrà affrontare situazioni difficili che metteranno seriamente in discussione il modo in cui ha sempre visto la realtà e che lo spingeranno a rivedere i canoni che per tutta la vita ha utilizzato per distinguere ciò che è considerabile una persona da ciò che non lo è.
“Loro non sono veri come noi…” “Quella non è una persona…” sono più o meno le parole con cui Taylor si rivolge agli androidi durante i primi minuti della pellicola. Ma, presto, grazie al rapporto con Alfie e con gli altri robot che incontrerà sulla sua strada, sarà costretto a rivedere gli schemi su cui basa la propria concezione della vita e della società e, insieme a lui, anche lo spettatore sarà costretto a far lo stesso. Questi infatti spinto inizialmente a parteggiare per l’Occidente, insieme a Taylor, esposto gradualmente alla crudeltà con cui viene gestita la guerra in Nuova Asia sarà lentamente portato a cambiare schieramento e si ritroverà infine a empatizzare con gli androidi e la loro unica volontà di “essere liberi” dal giogo umano.
Alfie è invece il personaggio più rappresentativo del messaggio di fondo che vuole suggerire il film, ovvero un essere perfettamente a metà tra il mondo umano e quello degli androidi che unisce al suo interno tutte le migliori caratteristiche di entrambi. È dunque un’androide intelligente e profondamente pacifica, incapace di fare del male a chiunque, che sia robot o umano. Il suo creatore non l’ha infatti creata per porre fine alla guerra con la violenza, ma al solo scopo di spegnere le armi degli aggressori e, in particolare lo stesso Nomad. Alfie è quindi un’anti-arma nata solo per ripristinare la pace tra le due specie.
Tuttavia non è solo questa sua indole pacifica a renderla un personaggio particolarmente interessante, ma anche il solo fatto di essere una bambina robot. Ciò che infatti da sempre distingue gli umani dai robot, sia nella realtà che nei vari mondi fantascientifici, è il fatto che i primi possano avere un processo di crescita e dei figli, mentre i secondi no. Alfie però distrugge anche quest’ultima barriera, mettendo totalmente in discussione la nostra idea di ciò che può essere considerato una persona e cosa no, sia grazie alla sua capacità di crescere sia grazie alle domande incredibilmente umane che durante tutto il film attraversano continuamente la sua testa.
Non è infatti raro che le sue interazioni con Taylor siano punteggiate da interrogativi talvolta spiazzanti come “Se tu non sei un robot, come sei stato costruito?”, talvolta totalmente senza risposta anche per noi, come quella vista già nel trailer ufficiale “Tu andrai in Paradiso?”. Di fronte a queste domande Taylor appare di frequente combattuto: da un lato vede perfettamente di trovarsi di fronte a un’androide, ma dall’altro non può che comprendere perfettamente ciascuna di quelle domande e, spesso privo di una reale risposta definitiva, è costretto a ribattere con una battuta o una mezza verità, così come fanno i padri di fronte agli interrogativi dei loro figli.
L’asimmetria tra i protagonisti porta dunque Edwards a gestire i dialoghi in maniera particolare, rendendoli brevi e poco complessi, riempiendo così di significato i silenzi, le reazioni dei personaggi e, ovviamente, le poche parole pronunciate. Questo tipo di discorso non vale però solo per le interazioni tra Taylor e Alfie: in The Creator, Edwards non si perde in dialoghi lunghissimi e pieni di concetti, ma lascia spesso che siano i gesti dei personaggi a parlare, mostrando scene di vita quotidiana che raccontano il rapporto armonioso tra umani e robot in Nuova Asia, oppure crudeli scontri a fuoco tra umani e robot.
È forse però in questo ambito che risiedono alcuni degli aspetti meno convincenti del film. Il mondo creato da Edwards è infatti così grande da faticare a stare nelle 2 ore e un quarto di durata del film. Proprio per la complessità e l’infinita cura del dettaglio del worldbuilding, si sente un po’ la mancanza di una maggiore caratterizzazione dei personaggi secondari, oltre che di dialoghi che approfondiscano maggiormente la lore del mondo rappresentato. Lo stesso vale in parte anche per i dialoghi tra Alfie e Taylor, di fatto interessanti, ma anch’essi un po’ brevi e rari all’interno della pellicola: sarebbe stato bello averne altri che sviluppassero e approfondissero ulteriormente i discorsi filosofici appena sfiorati e accennati negli scambi effettivamente presenti nel film.
Rilevati questi difetti, c’è però anche da dire che molti di essi sono dovuti principalmente a una precisa volontà di Edwards: quella di mettere al centro di tutto il messaggio, anche a costo di sacrificare un po’ i dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi. Il regista insomma non sembra essere interessato a spiegare nel minimo dettaglio gli scenari politici, storici e sociali del mondo da lui creato: ciò che vuole fare davvero è costruire qualcosa di paradigmatico e simbolico, che rappresenti metaforicamente gli ideali che vuole trasmettere. In questo senso, the Creator va intesa un po’ come una parabola ipertecnologica in cui tutto è declinato in maniera tale da veicolare il messaggio di fondo dell’opera.
Detto questo, continuiamo a pensare che un po’ di caratterizzazione in più dei personaggi secondari e un maggiore approfondimento dei dialoghi avrebbero solo aggiunto spessore alla pellicola, senza snaturare troppo l’operazione voluta da Edwards, e probabilmente avrebbero permesso a The Creator di essere annoverato tra i grandi capolavori del genere.
Una terra armoniosa devastata dalla guerra
Il complesso rapporto che si viene a creare tra Alfie e Taylor non riguarda però solo loro due, ma riflette il mondo in cui la loro vicenda è ambientata. Edwards riesce infatti a rappresentare anche a livello grafico e stilistico i diversi principi su cui si basano i due mondi in cui è divisa la terra.
Da un lato, abbiamo l’Occidente, il luogo dove, dopo l’esplosione dell’atomica su Los Angeles, si sta cercando di sterminare tutte le intelligenze artificiali ancora esistenti. Ciò però ovviamente non li ha portati a rinnegare la tecnologia: l’uomo occidentale usa ancora automazione e congegni robotici, ma solo a condizione che non sia capace di ribellarsi o di acquisire una coscienza propria. Nonostante l’abbandono dell’intelligenza artificiale, l’Occidente rimane dunque la terra dell’artificio e del tentativo continuo di controllare e superare la natura, come ben rappresentato sia dall’arma Monarch, quasi divina nel suo incombere e giudicare dall’alto chi deve vivere o morire, o anche dal semplice panorama urbano che, nei pochi momenti in cui è visibile appare dominato dal grigio e perfettamente ordinato, persino negli alberi disseminati all’interno del parco cittadino in linee parallele fra di loro e tutte equidistanti.
Completamente diverso è invece il mondo della Nuova Asia. Qui umani e androidi vivono in armonia e tranquillamente mescolati gli uni con gli altri. Ciò viene magistralmente rappresentato anche nel modo in cui viene rappresentata l’ambientazione. Nel mondo asiatico non esistono infatti solo gigantesche metropoli simili a quelle rappresentate in Blade Runner, ma anche zone rurali in cui tecnologia e tradizione si mescolano in un’amalgama armoniosa con strutture incredibilmente tecnologiche dalle linee sinuose e in grado di armonizzarsi perfettamente con i colori e le forme del paesaggio.
Le vicende che riguardano Taylor e Alfie portano inevitabilmente i due mondi a scontrarsi violentemente, anche se ben presto il succedersi degli eventi dimostra quale sia la reale natura di questa guerra. Seguendo le avventure del militare americano, conosciamo infatti meglio il mondo prima sconosciuto della Nuova Asia, ne apprezziamo le bellezze e ci godiamo insperati momenti di tranquillità. A distruggere totalmente ogni momento di armonia, giungono però le armate umane guidate dall’implacabile Nomad, pronte a devastare ogni cosa pur di raggiungere l’obiettivo che si sono prefissati. Si arriva così a comprendere che gli androidi non vogliono in realtà combattere con gli umani: quella dell’Occidente è una pura guerra di aggressione in cui le AI non possono fare altro che difendersi per combattere per la loro libertà.
Il conflitto è dunque uno scontro tra due modi totalmente diversi di intendere il rapporto inter-specie: da un lato la competizione per stabilire quale delle due è la dominante, dall’altro la semplice cooperazione e convivenza. E in tutto questo appare magistrale soprattutto il modo in cui Edwards sia in grado di far cambiare gradualmente la prospettiva allo spettatore senza che questi nemmeno se ne accorga. All’inizio della pellicola infatti sembreranno perfettamente sensate le riflessioni degli umani che parlano di come le intelligenze artificiali non siano reali come noi o di quanto forte sia la tendenza di una specie più intelligente a sopraffare quelle inferiori. Tuttavia, col proseguire del film, parrà sempre più evidente come la competizione sia in realtà un preconcetto più che altro umano, in nessun modo condiviso dalla popolazione androide, più propensa alla condivisione e alla convivenza pacifica. Edwards riesce dunque, con The Creator, a spingere chi sta guardando a fare un passo al di là della limitata prospettiva umana e ad accogliere la possibilità che ci siano altri modi di vedere la vita e l’esistenza differenti da quelli propri dell’essere umano.
Uno stile grafico iper-tecnologico con qualche tocco retro
Sin dai primi minuti della pellicola, si ha la netta impressione che il mondo fittizio di The Creator sia stato creato da Edwards con un obiettivo ben preciso in mente: rendere quanto mostrato nel film non solo credibile, ma anche, in qualche modo, familiare. Edwards insomma non vuole che lo spettatore consideri quello che sta vedendo qualcosa di totalmente distante da noi, quanto piuttosto provare a rappresentare come la Terra potrebbe effettivamente essere tra quarant’anni.
Per riuscire a portare a termine questo arduo compito, il regista decide sì di inserire elementi iper-tecnologici, come appunto gli androidi o gli ologrammi, ma allo stesso tempo inserisce qua e là elementi per noi molto riconoscibili e spesso dotati di un’estetica anni ’80–’90. Nei laboratori sono per esempio ancora presenti semplici schermi con uno stile che ricorda quelli rappresentati in grandi capolavori quali Blade Runner, Jurassic Park o Alien. Molto presente è poi anche la televisione a tubo catodico. Sin dalle prime apparizioni, Alfie sembra infatti una grande appassionata di programmi orientali anni ’80-’90 e ciò contribuisce a sottolineare il suo essere semplicemente una bambina, pur essendo, allo stesso tempo, una delle armi più potenti del mondo.
Questo efficace mix di stili si ritrova anche nella colonna sonora, contenente sia pezzi più moderni, spesso associati alle ambientazioni maggiormente tecnologiche, sia musiche più calme e solenne, per le ambientazioni più naturali e i momenti maggiormente drammatici. Interessante è poi anche l’utilizzo dei silenzi, sfruttati per aggiungere intensità a specifici momenti o per marcare il cambio di tono di una determinata scena (come avviene, ad esempio, con l’improvviso arrivo di Nomad).
Conclusioni
The Creator è un film maestoso, riuscito sotto quasi tutti i punti di vista. L’incredibile mondo costruito da Edwards colpisce lo spettatore per l’infinita cura del dettaglio, per l’interessante mescolanza di stili ed estetiche differenti, oltre che per l’incredibile rapporto che durante tutta la pellicola tra Alfie e Taylor, due protagonisti veramente fuori dal comune. Gli unici nei, che forse gli impediscono di essere annoverato tra i grandi capolavori della fantascienza, risultano essere i dialoghi talvolta un po’ troppo brevi e poco approfonditi e la scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari. Nonostante ciò, The Creator rimane però una grandissima opera, capace di realizzare ciò che ogni buon film di fantascienza dovrebbe avere come obiettivo principale: offrire un punto di vista diverso, sia sul futuro dell’umanità, sia sulle sfide tecnologiche, sociali e politiche della contemporaneità.