Boruto, sequel ufficiale di Naruto iniziato da oltre cinque anni ormai, è da sempre circondato da centinaia di voci e altrettante critiche: ovunque cercherete troverete qualcuno sul web pronto ad attaccare a spada tratta l’opera, cercando difetti anche dove non ce ne sono e affermando invece l’assoluta superiorità della precedente opera di Masashi Kishimoto, forse più per partito preso che per qualche motivo particolare.
Ma noi abbiamo deciso di non fermarci di fronte alle critiche, di rifletterci e di cercare di capire se effettivamente Boruto sia brutto come dicono o se invece al suo interno ci sia qualcosa da salvare: ci siamo chiesti, in altri termini, se valga davvero la pena leggere gli ottanta capitoli che compongono Boruto e la risposta è… Sì.
Non è una risposta che do a cuor leggero, anzi sono ben conscia che Boruto soffre di numerosi difetti e che non è certamente all’altezza della prima parte di Naruto, ciononostante mi sento comunque di consigliarlo a tutti i lettori di Naruto, ma soprattutto a chi è cresciuto con le avventure di quel ragazzino inesperto e immaturo che sognava di diventare Hokage e che alla fine è riuscito davvero a realizzare il suo sogno.
Il rapporto genitori-figli
Boruto racconta, come dice il titolo stesso, la storia di Boruto Uzumaki, primogenito di Naruto, e del suo tentativo di uscire dall’ombra paterna. Appare chiaro sin dai primi volumi che tutto ciò che il ragazzo desidera è avere le attenzioni del padre, troppo occupato coi suoi doveri da Hokage per pensare alla famiglia: questo costituisce il primo difetto di Boruto e, paradossalmente, anche il primo motivo che mi spinge a consigliarvi la lettura.
È vero che molti fan sono rimasti delusi dal comportamento di Naruto e lo hanno spesso indicato come un pessimo padre, tuttavia si tratta comunque di una novità assoluta rispetto a quanto abbiamo visto nei 700 capitoli del manga precedente: lì le relazioni tra genitori e figli erano quasi del tutto assenti se non in casi particolari, e anche quando erano messe in scena si trattava comunque di comparse o personaggi secondari, mai dei protagonisti. Boruto, invece, mette al centro della narrazione la difficoltà di essere un genitore, e soprattutto di essere un genitore presente.
Ovviamente Naruto vuole essere lì per i suoi figli, ma deve comunque fare i conti con le responsabilità della vita di tutti i giorni, col lavoro e i propri doveri: ciò, però, non significa che non gli importi dei suoi figli. Il Settimo Hokage dimostra più volte che metterebbe Boruto e Himawari al primo posto se si presentasse una situazione di pericolo, e vederlo piangere sul corpo morto del figlio, per poi commuoversi nello scoprire che è ancora vivo, è una delle scene più strazianti che Kishimoto abbia mai scritto.
Lo stesso discorso si può applicare anche a Sasuke, genitore assente ancora più di Naruto, che però tiene sinceramente a Sarada e a modo suo tenta di dimostrarlo: pur essendo freddo e distaccato, Sasuke farebbe di tutto per la figlia e sacrificherebbe anche i suoi stessi desideri, se questo significasse non vedere più le sue lacrime. Lo dimostra alla fine della prima serie di Boruto, quando accetta di proteggere il protagonista nonostante lo consideri un traditore e l’assassino del suo migliore amico.
Naruto e Sasuke non sono più rappresentati come degli eroi imbattibili, ma come degli uomini, dei genitori che provano a fare del loro meglio, talvolta riuscendo, altre volte fallendo.
La maturità degli immaturi
Boruto mette in luce un lato di Naruto che conoscevamo poco o nulla: quello dell’adulto responsabile. Naruto non è più un ragazzino, ora comprende la serietà delle situazioni e anche cosa significa essere Hokage.
Dal suo punto di vista essere Hokage significa trattare l’intero Villaggio come se fosse la sua famiglia, proteggendoli e avendo cura di ognuno di loro allo stesso modo, persino di chi sembra non avere un posto nel mondo come Kawaki. Le scene tra Naruto e Kawaki, dolci e quasi nostalgiche, ci fanno capire quanto Naruto sia maturato e quanto preda seriamente l’incarico di Hokage.
Purtroppo lo stesso discorso non si può fare per i personaggi femminili, che salvo qualcuno si riducono praticamente a delle comparse: Hinata, ad esempio, appare ben poco ma riesce a rubare la scena al marito in alcune sequenze in cui si impone col figlio Boruto o con Kawaki, e anche lei è cresciuta diventando una donna sicura di sé, che ama ciò che ha costruito e che farebbe di tutto per proteggere la sua famiglia.
Un percorso inverso rispetto a Naruto
Se fino ad ora ho parlato delle vecchie generazioni e di come, nonostante tutto, queste ricoprano ancora un ruolo di spicco all’interno del sequel, adesso è il turno di parlare delle nuove e di come in particolare i personaggi di Boruto e Sarada abbiano portato una ventata d’aria fresca all’interno dell’universo di Masashi Kishimoto.
Boruto non è una storia di conquiste, né racconta la storia di un ragazzo completamente solo che, con l’impegno e la dedizione, riesce a circondarsi di persone che gli vogliono bene. È, invece, una vicenda che racconta la perdita: il figlio di Naruto inizia con tutto ciò che potrebbe desiderare, circondato da amici e da persone che lo conoscono e alla fine si ritrova con niente. Tutto gli scivola via dalle mani come sabbia e di colpo scopre ciò che non ha mai conosciuto: la solitudine.
Sarada, invece, non ha quasi niente a che vedere con Sasuke. È una ragazza che non vuole uccidere, bensì proteggere e che sogna non di ferire, ma di curare e costruire. Il suo sogno di diventare Hokage è quanto più distante ci possa essere da Sasuke e al tempo stesso non può non scaldarci il cuore, perché è tutto ciò che suo padre non è mai riuscito ad essere: una ragazzina della sua età, con dei sogni adatti ai suoi dodici anni.
Il sequel di Naruto è a tutti gli effetti un percorso inverso rispetto all’opera madre e proprio per questo dovreste assolutamente dargli una possibilità e valutare voi stessi pregi e difetti, così da capire se nonostante i difetti può essere il degno seguito di quella storia che, nel bene e nel male, ha segnato l’adolescenza di tutti noi.