Black Mirror 6 è finalmente sbarcata su Netflix con l’intento di immergere nuovamente gli abbonati della piattaforma di streaming californiana negli incubi tecnologici creati dalla mente perversa e geniale di Charlie Brooker.
Dopo una pausa lunga quattro anni una delle serie tv più innovative e d’impatto degli ultimi anni è dunque tornata con lo stesso intento malevolo di sempre: far riflettere sui pericoli insiti nell’uso di tecnologie vecchie e nuove fornendoci uno specchio oscuro di quello che la nostra società sta diventando.
Anche questa nuova stagione parte dalle stesse premesse e, sebbene alcuni episodi, sembrino soffermarsi più sul passato o su pericoli più vicini a noi di quanto non fossero quelli cui ci aveva abituato, un’analisi approfondita ci può aiutare a individuare i focus dietro narrazioni quasi sempre complesse e sicuramente mai banali.
In questo approfondimento vogliamo concentrarci, in particolare, sul primo episodio della sesta stagione di Black Mirror, intitolato Joan Is Awful (Joan è terribile) e sui diversi strati di significato che potrebbero essere nascosti in un racconto che in molti hanno visto soltanto come una critica aperta a Netflix e alla nostra abitudine di non riservare troppa attenzione ai termini contrattuali di cui accettiamo le clausole quando iniziamo a usare un servizio come quello fornitoci dalla casa della N rossa.
Cominciamo con l’avvisare di possibili spoiler nel prosieguo della lettura e con il raccontare a grandi linee la trama della puntata.
Quando Joan scopre che la sua vita è diventata una serie di successo sulla piattaforma Streamberry la sua esistenza cambia per sempre. Una fedele riproduzione della sua vita e dei suoi segreti sono trasmessi in forma di serie tv grazie all’utilizzo degli strumenti dell’intelligenza artificiale e sfruttando le telecamere e i microfoni di cui la protagonista della vicenda è circondata quotidianamente. A quel punto inizia una rapida disgregazione di ogni tipo di vita sociale di Joan che decisa a tornare in possesso della propria esistenza si lancia in una vera e propria guerra contro Streamberry.
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Di contratti, dati, corporazioni e intelligenza artificiale
Sicuramente il primo grande avvertimento che ci viene lanciato in Joan Is Awful riguarda lo scarso interesse per i contratti di utilizzo che decidiamo di accettare senza neanche leggere e che, come già raccontato nell’episodio di South Park HUMANCENTiPAD, potrebbero riservare sorprese di qualsiasi tipo.
L’idea di base più ampia, in questo senso, riguarda il fatto che la nostra società ci ha portati a fidarci in modo cieco di grandi aziende che pensiamo di conoscere e che non riusciamo a ritenere pericolose in alcun modo, considerandole quasi alla stregua di persone a noi vicine e non rendendoci in grado di mantenere la lucidità necessaria a ricordarci che un contratto è pur sempre un contratto.
Scendendo un pochino più in profondità la questione da prendere in considerazione, e che in qualche modo si lega alla precedente, è quella di un pericolo sicuramente più concreto e oscuro: le nostre vite ruotano sempre di più intorno a dispositivi collegati in rete e dotati di microfoni e telecamere che possono essere in grado, se usate con gli intenti sbagliati, di trasmettere qualsiasi tipo di dato a controparti che potrebbero utilizzarle per i propri scopi. John Snowden ci ha avvisato del pericolo ormai tanti anni fa, dimostrando come le agenzie governative fossero in grado di spiare a piacimento gli utenti della rete telefonica e della rete Internet. E, ancora una volta, le aziende private potrebbero fare molto peggio, soprattutto in un’epoca in cui i grandi capitali di ricchezza si costruiscono sull’acquisizione e sull’utilizzo di dati.
Continuando nella nostra lenta discesa verso gli inferi di Joan Is Awful non possiamo non accorgerci dei riferimenti all’uso dell’intelligenza artificiale per la creazione di contenuti di qualsiasi tipo, reintroducendoci così al concetto di Deep Fake che era stato già presentato dal primissimo episodio della serie tv, The National Anthem (Messaggio al Primo Ministro) e ricordandoci che i progressi della tecnologia comporteranno una difficoltà sempre più elevata di distinguere il vero dal falso, in questo caso anche se la cosa dovesse riguardarci personalmente.
Nick Bostrom e nuove paranoie etiche
Arriviamo quindi all’ultimo strato, quello forse più nascosto e in qualche modo più terrificante.
Il carattere metanarrativo della vicenda raccontata ci porta a scoprire che quello che noi stiamo vedendo sui nostri schermi non è effettivamente il mondo sorgente da cui è tratta la storia, ma già un primo livello di una serie di universi che sono uno la copia dell’altro e che si sovrappongono praticamente all’infinito.
Eppure noi, come spettatori abbiamo empatizzato con dei personaggi che hanno avuto reazioni e paure e che risulteranno essere nient’altro che la costruzione di un’intelligenza artificiale e di un mondo virtuale, pur non essendone in alcun modo consapevoli (almeno quasi tutti).
Le domande che sorgono spontanee a questo punto sono due: chi ci può assicurare di non vivere in una simulazione informatica (esiste anche un’interessante teoria sviluppata dal filosofo Nick Bostrom che spiega in questo modo il nostro universo)? E ancora, quanto può o potrà essere consapevole una creatura facente parte di un universo simulato come quello di un videogioco e dotata di una forma di intelligenza? Anche se ci viene detto, infatti, che i vari universi sovrapposti non siano altro che copie di copie, prima che la Joan protagonista della vicenda distrugga il computer quantistico (imitando la Joan sorgente), l’unico personaggio consapevole di essere soltanto virtuale cerca di fermarla, ricordandole che sta per distruggere il loro universo uccidendoli tutti. Piuttosto inquietante, in effetti, soprattutto pensando ai videogiochi che giochiamo e ai tanti NPC che massacriamo allegramente nelle nostre scorribande e al fatto che siamo sempre più vicini a creare mondi complessi abitati da intelligenze artificiali la cui esistenza dipenderà da noi creatori e di cui saremo eticamente responsabili.
Anche quest’ultimo quesito è già stato esplorato dalla fantascienza nel film Il Tredicesimo Piano e, più recentemente nella serie tv Westworld (che a sua volta sviluppa i concetti del bellissimo film con Yul Brynner).
Quello che abbiamo potuto scoprire in Joan Is Awful, dunque, va oltre l’idea che Netflix potrebbe nascondere delle clausole nascoste nei contratti di utilizzo che ogni giorno accettiamo senza neanche leggere.
E poi che sì, Black Mirror è tornata, un po’ diversa da come la ricordavamo, forse, ma è tornata.