C’è un momento molto specifico che mi ha colpito in maniera considerevole durante la visione di Belle: una scena ben precisa in cui credo di aver sommariamente intuito dove Mamoru Hosoda volesse andare a parare con il suo ultimo lungometraggio cinematografico. La folla attorno alla piccola Suzu è completamente impietrita, e con essa anche noi spettatori. Qualcuno sta annegando, eppure tutte le persone sono dannatamente ferme. Tutte, tranne una. Quel silenzio fatto di sguardi fissi e azioni non compiute è mandato in frantumi dalle lacrime e urla della piccola protagonista, ma c’è poco da fare. Ad emergere dal fiume è una sola persona, e di certo non quella che Suzu avrebbe sperato di vedere. Poi arriva il momento che vi ho accennato prima: i commenti social.
In molteplici occasioni, che siano le chiacchiere da bar o le più articolate e ispirate recensioni (qui trovate la nostra), Belle è stato definito come un racconto sulla crescita di un’adolescente e sulla relazione tra questa ed il mondo dei social. Non c’è alcun dubbio sul fatto che ciò corrisponda al vero, d’altronde è stato Hosoda stesso a confermare le sue intenzioni in diverse interviste, e soprattutto a comunicare con discreta efficacia ciò che aveva in mente alle varie figure con cui si è imbarcato in questo progetto. Anche volgendo lo sguardo al film per quello che è ciò appare evidente. Le prime cotte, la scuola, le delicate relazioni con la famiglia e i coetanei: Belle è a tutti gli effetti un film sul caotico periodo dell’adolescenza, e di conseguenza sugli adolescenti.
Eppure nell’inquadrarlo esclusivamente in questo modo ho come l’impressione che si stia perdendo un tassello importante della discussione sul film e dell’approfondimento psicologico della nostra fantastica eroina di turno — tassello che è esattamente quello riportato alla luce, almeno ai miei occhi, dalla scena dei commenti social che ho voluto sottolineare. Perché si, certo, l’eroica Suzu che affronta con un coraggioso sguardo il violento padre di Ryu sul finale non è certamente la stessa impacciata, timida e insicura ragazzina che abbiamo avuto modo di osservare ad inizio film, ma la nostra lentigginosa cantante non è semplicemente cresciuta. Chiamiamolo per quello che è: il superamento di un lutto inimmaginabile che l’aveva intrappolata in una pericolosissima spirale di deriva psicologica, a seguito della quale Suzu ha potuto ricucire le cicatrici scaturite dal dubbio.
La madre avrebbe dovuto farsi gli affari suoi, invece ha scelto di gettare la sua vita e abbandonare la figlia per atteggiarsi tentando di salvare una sconosciuta: sono queste le conclusioni a cui la baraonda social è arrivata una volta posta davanti all’impellente necessità di pronunciarsi su di un nefasto evento che non la riguardava neanche lontanamente. Meschine considerazioni che si aggiungono al caos della rete formando un brusio intollerabile con cui chiunque, direttamente o meno, ha inevitabilmente avuto a che fare almeno una volta nel corso della sua “vita” online.
Proprio come Hosoda vuole farci notare, il confine tra realtà e virtuale è ormai sempre più labile e indefinito: internet diventa un pezzo rilevante della vita quotidiana delle persone, se non addirittura fondamentale. Non sorprende dunque notare come, volontariamente o meno, Suzu abbia finito per avvicinarsi pericolosamente alla prospettiva deformata della madre che il web ha dipinto; non stupisce osservare come lo stress e il dolore fisico provato da un semplice ragazzino si ripercuotesse visibilmente anche sul suo avatar virtuale in U. Ancor prima di essere un’adolescente senza madre, Suzu è una figlia che ritiene di esser stata tradita da un gesto che non comprende e men che meno accetta. Ecco allora che aprire il proprio cuore diventa pericoloso: se è stata già pugnalata alle spalle una volta, chi le garantisce che non accadrà di nuovo?
Hosoda è sufficientemente delicato da non creare un nesso di causalità dichiarato tra i commenti sull’accaduto e la considerazione che Suzu sviluppa sul gesto della madre. Esso è certamente presente, sia chiaro, ma si rivolge per lo più a noi spettatori, e in fin dei conti ci rivela più informazioni sulla ragazzina che sulle vili dinamiche del futuristico tessuto virtuale ideato da Hosoda, che il regista si limita a denunciare più che affrontare nella sua effettiva complessità.
Fatto sta, però, che Suzu non riesce a perdonare la madre, ed è esattamente per questo che Ryu la sconvolge: perché la fa comportare proprio come lei. Dietro quella travolgente forza motrice che spinge Suzu ad avvicinarsi all’orribile mostro vi è molto più che la semplice curiosità. Esattamente come fece la madre, Suzu si appresta ad un qualcosa di rischioso e innaturale che gli altri non hanno il coraggio di fare, e il motivo è che prova proprio quell’emozione che i leoni da tastiera non hanno mai mostrato verso di lei: l’empatia. È quest’ultima la chiave per una convivenza migliore nel mondo dei social, ci dice Hosoda. Perché in fondo U, o qualunque altro social al suo posto, possono essere strumenti usati tanto in bene quanto in male. È tutto nelle nostre mani.