Seppur l’acquisizione di Activision Blizzard da parte di Microsoft potesse dare a sognatori e ottimisti la speranza che il cambiamento potesse portare giovamento all’azienda californiana, pare tuttavia che l’ondata dello scandalo sia ben lontana dal rallentare. Diverse forme di abuso, spesso anche a sfondo sessuale, hanno condizionato pesantemente la vita di numerosi dipendenti. Una tra questi nel 2017 ha deciso di porre fine alla sua vita.
Kerri Moynihan, all’epoca solo trentaduenne, lavorava in qualità di finance manager presso Activision Blizzard. Il 27 aprile di cinque anni fa è stata trovata senza vita nella sua stanza d’albergo al Disneyland’s Grand Californian Hotel & Spa, luogo del suo pernottamento durante un ritiro aziendale. La famiglia ora pretende giustizia, dando agli abusi sessuali subiti dalla figlia un ruolo determinante nel suo suicidio.
Moynihan vs Activision Blizzard: quel che sappiamo
Il suicidio di Kerri Moynihan pare sia avvenuto poco tempo dopo un party aziendale, evento durante il quale i colleghi hanno fatto girare una foto che ritraeva le sue parti intime. Come se questo non bastasse, nel 2021, la causa intentata dal California Department of Fair Employment and Housing fa menzione di un superiore della donna, colpevole di aver portato con sé dei sex toys durante una viaggio di lavoro in cui lei era tenuta ad accompagnarlo.
Tuttavia, i genitori della Moynihan avrebbero accusato ancora un altro individuo, Greg Restituito, capo di loro figlia. Secondo i famigliari, l’uomo avrebbe mentito agli investigatori del Dipartimento di Polizia di Anaheim sulla natura della sua relazione con Kerri. Dopo la sua morte, Restituito avrebbe quindi più volte cercato di nascondere di avere avuto rapporti sessuali con lei.
Restituito, secondo il suo profilo LinkedIn, avrebbe lavorato come senior finance director fino a Maggio 2017, esattamente un mese dopo la morte della Moynihan. Nonostante le richieste, l’uomo non ha mai voluto commentare a proposito della causa legale, e così anche Activision Blizzard, che durante le indagini si persino è rifiutata di collaborare, negando agli investigatori l’accesso al laptop aziendale dell’imputato e allo smartphone della donna.
Insomma, per quanto la nuova gestione di Activision Blizzard possa tentare di restaurare l’immagine della compagnia, fintanto che gli scheletri nell’armadio continueranno ad affiorare, impedendo di fatto di chiudere col passato, il compito potrebbe rivelarsi estremamente arduo.
Fonte: Washington Post