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Mank, la nostra recensione del nuovo film di David Fincher

Mank approda finalmente su Netflix, ecco la nostra recensione

Nel 1939 un 25enne chiamato Orson Welles firmava con la RKO Pictures un contratto considerato allora incredibile. In quel periodo, durate l’età d’oro del cinema americano, un regista non aveva le libertà che potrebbe avere oggi. Basti pensare che spesso non si aveva alcun tipo di controllo sul montaggio finale, affidato alle mani del produttore.

Welles invece avrebbe avuto la possibilità di ricoprire il ruolo di regista, co-sceneggiatore, protagonista e produttore nel suo debutto cinematografico: Citizen Kane (Quarto Potere), una delle pellicole più importanti della storia del cinema.

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Mank, il nuovo film di David Fincher, su Netflix dal 4 dicembre, si muove proprio all’interno di quel particolare periodo, tra gli anni ‘30 e ‘40, ripercorrendo la travagliata produzione di Quarto Potere (segnata dallo scontro con William Randolph Hearst, imprenditore realmente esistito sul quale è costruita la figura di Kane, il protagonista) e alcune fasi della vita dello sceneggiatore del film, Herman Jacob Mankiewicz, interpretato da Gary Oldman.

Fin dai titoli di testa, dalla scelta del bianco e nero e dalla qualità dell’audio, è evidente l’intento di Fincher di ricreare l’atmosfera del tempo attraverso lo stile estetico dell’epoca. Un grande lavoro infatti è stato fatto nella direzione della fotografia e nel montaggio per ricreare esattamente quei particolari tipici dei film degli anni ’40.

Basti pensare alle sovrapposizioni e alle dissolvenze incrociate della scena delle elezioni del governatore della California o addirittura allo stile recitativo degli attori, veri e propri omaggi ad un certo modo di fare cinema.

Mank

Mank però è un biopic atipico e non si limita a ricreare perfettamente l’atmosfera dei film di quegli anni. Spesso infatti il bianco e nero assume delle caratteristiche molto particolari, come il contrasto eccessivamente ridotto o l’assoluta prevalenza dei grigi, rompendo il gioco chiaroscurale del monocromo. Questo cortocircuito tra tecniche del passato e soluzioni originali e moderne conferisce al film un’atmosfera straniante, a tratti claustrofobica e onirica.

Mank

Non solo a livello tecnico, ma anche a livello registico Fincher rompe il classico schema del biobic. Come lo stesso Quarto Potere, la pellicola è costituita infatti da frammenti del passato di Mankiewicz alternati al suo presente, dove lo vediamo lavorare alla sceneggiatura.

Sebbene i flashback ci forniscano alcuni tratti salienti della sua personalità, di Herman alla fine sappiamo ben poco, proprio come alla fine di Quarto Potere non abbiamo un quadro preciso del protagonista e come viene detto da un personaggio: “Non credo che ci sia una parola che possa spiegare la vita di un uomo” (riferendosi a Rosabella).

Il personaggio di Oldman inoltre afferma non a caso: “Non si può cogliere l’intera vita di un uomo in sole due ore”, frase rivolta a Quarto Potere, dove l’analisi dell’atto stesso di fare cinema e della costruzione di un personaggio era fondamentale, ma applicabile anche a sé stesso e al film in cui è protagonista.

Mank non è forse il miglior lavoro del regista statunitense, soprattutto per colpa di una parte centrale forse eccessivamente prolissa, piena di riferimenti precisi alla politica e al cinema americano del tempo che potrebbero disorientare alcuni spettatori, ma ha dalla sua un cast eccellente e un comparto tecnico incredibile.

Un film biografico che, omaggiando Quarto Potere, nega la natura stessa dei biopic ammettendo l’impossibilità di ritrarre in maniera perfetta un uomo come Herman Jacob Mankiewicz e la realtà degli anni 30-40, restituiti attraverso frammenti che sembrano provenire da un’altra realtà più che da un’altra epoca.

Queste sono le nostre personali impressioni sul film, non si può cogliere la bellezza di una pellicola in 4000 caratteri, ma abbiamo provato a darvene un’idea e ve ne consigliamo la visione (se non l’avete ancora fatto, dopo aver visto Quarto Potere).

Voto: 8

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Marco Di Pasquale

Marco Di Pasquale

Terrone trapiantato a Torino. Appassionato di cinema con la c minuscola, fotografia, fumetti e videogiochi. Mematore dilettante e stregone di livello ancora troppo basso per vantarsene in una bio.

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