The Last of Us Parte 2 è alle porte, ma crediamo sia fondamentale fare un salto temporale nel passato di ben sette anni per comprendere meglio ciò che osserviamo nel presente
Un giorno. Un giorno ci divide dal lancio di The Last of Us Part II, il continuo del viaggio di Ellie e Joel in un mondo ormai devastato e completamente in balia di se stesso a causa di una pandemia che trasforma le persone in creature aberranti pronte a uccidere. La nostra recensione, dedicata al secondo capitolo, potete trovarla a questo link, così che possiate leggere le nostre impressioni a riguardo e dirci cosa ne pensate.
Un salto nel passato
Per parlare di The Last of Us è fondamentale fare un salto temporale al 2013. Le idee di Naughty Dog, che parlavano di un titolo sensazionale, attirarono le attenzioni degli addetti ai lavori quanto dei videogiocatori. Un’opera che raccontava la fine del mondo, ma non la sua distruzione. Parlava di un mutamento a causa di un fungo capace di insinuarsi negli esseri umani trasformandoli in creature pericolose e violente. Ne abbiamo un primo assaggio all’inizio del titolo.
Muovendo Sarah, la figlia di Joel, nella casa che apparteneva loro prima del disastro, non si avverte null’altro che la quiete tra un padre single e una figlia che gli regala un orologio. Grazie all’interpretazione di Lorenzo Scattorin, doppiatore di Joel all’interno di The Last of Us, la profondità di quel momento si evince da uno spaccato di realtà che accomuna ognuno di noi nella naturalezza della vita.
Il cambio di narrazione è repentino. Non si ha il tempo di riflettere. Con Sarah apriamo gli occhi e ci ritroviamo in un mondo diverso. Joel, armato di pistola, spara a un uomo che, fino a quella mattina, era il solito vicino di casa che saluta chiunque passi vicino alla sua proprietà. In quel momento è la confusione a rendere incredibilmente incalzante quei momenti. A estremizzare i dialoghi, una volta che Tommy recupera Joel e Sarah, è il racconto di quello che diventa parte di ciò che il prologo mostra buttandoci addosso una serie di immagini. Non dimenticherò mai la fattoria in fiamme che fa da cornice a quel momento.
A illuminare la strada sono i fari anteriori della macchina di Tommy, che guida rapido per raggiungere l’autostrada. Tutto attorno, a parte quella precisa scena, mostra un mondo impreparato ad affrontare quella minaccia. Dell’infezione di questo fungo si legge e si ascolta che imperversava nei campi agricoli degli Stati Uniti e ora, da quanto si evince dalla radio accesa, colpisce anche gli esseri umani.
Chi ha giocato il primo The Last of Us conosce l’epilogo del prologo e quello che Joel si lascerà alle spalle. Non rimarcandolo più del dovuto, la paura è spesso motrice di chiunque di noi.
Quando quel soldato della Guardia Nazionale punta un’arma a Joel e a Sarah, lo fa perché segue degli ordini. Ed è questa la bestialità, se la contestualizziamo ad alcuni dibattiti odierni che giustificano lasciare indietro i deboli perché sono un peso: chi impartisce quell’ordine, in un modo o nell’altro, non ha gli strumenti necessari per definire se quella persona sia malata oppure sana.
La giudica, puntando il dito senza conoscerne le reali dinamiche – in questo caso la fuga di Joel e Sarah attraverso la disperazione di chi, in quel momento, non sa cosa stia accadendo. Mancano l’ascolto e la comprensione. Da quello che vediamo abbiamo la prova che se collassano l’umanità e il mondo vengono completamente disintegrate le certezze che ci spingono a renderci migliori.
La morte della speranza
In quel momento a morire non è solo Sarah, ma le speranze di Joel per il futuro: per lui diventa quasi stancante vivere, andare avanti, cercare di voltare pagina. Quando si perde qualcuno che si ama, a causa di qualsiasi motivazione, è quasi sempre dura provare per un istante a riprendersi.
Nel prologo si vive l’intensità che genera, poi, sensazioni umane normalissime che il videogiocatore prova, pad alla mano. Si passa dalla felicità di un momento tra padre e figlia, in qui si scherza sul mutuo da pagare, a istanti che passano davanti a noi in maniera sfuggevole, come se venissero buttati addosso a ognuno per far vivere in quel momento una situazione di sconforto capace di portare a conoscere un aspetto che si ricollega a quello che si vede.
La fattoria in fiamme, l’autostrada piena di macchine, la fuga in quella piccola cittadina del Texas mentre si scappa da chi, fino a pochi giorni prima, ti salutava con affetto. Questo genere di emozioni, concentrate tutte nel prologo, si ritroveranno nell’esperienza a scaglioni, in momenti precisi per definire al meglio ciò che poi ricostruisce in parte l’intera narrazione. Chiariamoci: a definirlo maggiormente è quello che si respira imparando a vivere nel mondo di The Last of Us.
Il gameplay di The Last of Us è funzionale, in tal senso, a quest’ultima. Nelle prime cinque ore di gioco viene presentato in maniera sequenziale. La spiegazione si allarga dalle fasi stealth a quelle di azione, approfondite maggiormente nel corso dell’esperienza attraverso la narrazione e l’ambientazione. Tutto è ben amalgamato perché il mondo di The Last of Us, ora completamente immobile dagli eventi che lo hanno colpito, suggerisce il metodo d’approccio attraverso le scelte che il videogiocatore utilizza per arrivare a superare una sezione.
Come scritto nella recensione di The Last of Us Part II da parte di Carlo, la brutalità al suo interno viene completamente contestualizzata quanto la violenza. Già all’epoca ciò si avvertiva attraverso il metodo che si utilizzava durante le ore di gioco determinando in parte il lato scenografico.
Una bottiglia o un mattone erano utili per distrarre i nemici, utilizzando poi un pugnale a serramanico per ucciderli. Si poteva persino soffocarli e, a primo impatto, risultava ancora più angosciante. Ciò era espresso con estremo realismo, percependo il collo che scrocchiava e si stritolava. Il peso della morte che vivevi e sentivi, ma non toccavi. Il sangue che zampilla sul terreno, il nemico che cade davanti a te mentre le urla di chi lo conosceva, preoccupate per un nemico nell’ombra, sferzano quel silenzio che soltanto una calamità naturale può creare. Qui torna preponderante la scelta, a sua volta, di proprie consapevolezze e conclusione.
Il tema della violenza…
Nell’ultimo periodo si è parlato di violenza. Nel caso di The Last of Us Part II è giusto sottolineare una questione: non è un abuso di quest’ultima, poiché la lamentela che n’è scaturita sarebbe già dovuta scoppiare nel 2013 quando, a mio avviso, poteva portare a un dibattito ancora più caldo e decontestualizzato quanto quello odierno su cui non desidero esprimere un parere soggettivo perché desidero concentrarmi sull’oggettività della questione.
Come qualsiasi altro prodotto artistico, il videogioco esprime ciò che vuole portare al videogiocatore attraverso le scelte degli sviluppatori. In questo caso Naughty Dog ha puntato su un maggiore realismo per presentarlo in maniera adeguata e ispirata non come suo marchio, ma perché il mondo in The Last of Us è brutale a causa degli eventi da cui è colpito. La sensibilità di ognuno di noi è ovvio che verrà toccata, dal 19 Giugno; com’è ovvio che abbia toccato tanti altri e continui a farlo.
Certo, non sarà facile uccidere un modello poligonale perché sarà estremamente realistico, capace di spingere noi stessi ad avere un senso di colpa che non riusciremo immediatamente a gestire. La nostra recensione a riguardo ne ha rimarcato la particolarità: dedicandoci a un numero di ore estremamente elevato, muovendo Ellie in una Seattle completamente devastata, abbiamo notato che uccidere sia diventato estremamente pesante. Ma non era una novità.
Tornando alla discussione antecedente al gameplay e al tema violenza, il ricordo di The Last of Us non parte soltanto dal prologo, ma dalla crescita emozionale proposta che perdura fino all’ultimo momento. Quando Joel conosce Ellie, non ha idea di cosa diverrà per lui. Il dolore di un uomo non scompare così, come se niente fosse: è perpetuo e costante. In questo caso Joel riscopre un lato paterno soltanto quando teme di perdere Ellie una volta che l’ha condotta dalle Luci, che vogliono estirparle la cura e liberare il mondo dall’infezione. Ellie conosce la verità, ma non l’epilogo che poi estenderà ulteriormente l’intera versione che Joel le racconterà.
Un viaggio per varie città degli Stati Uniti che poi, alla fine, si conclude con una consapevolezza: anche dinanzi alla morte del mondo, ci sarà sempre qualcuno disposto a salvare una vita per salvaguardare il mondo intero. Ora, la scelta di Joel è datata dall’affetto che prova nei confronti di Ellie perché, affezionandosi a lei, ha avuto modo di riprovare quell’affetto che ha perso. L’aspetto più caratteristico, capace di convogliare l’energia della perdita, è il rapporto che si crea tra Joel ed Ellie.
Non è immediato. Non è sentito. Esce fuori adagio per maturare, poi, in momenti complessi che sono costretti a superare. Definendolo con estrema semplicità, si tratta di una consapevolezza esteriore che solletica come una piuma una parte più sensibile del videogiocatore, il quale ripercorre il cammino di Joel mentre affronta le avversità di un mondo, e lo ripeto, totalmente allo sbando.
Un rapporto che si prende il suo tempo…
Ellie è una ragazzina afflitta da traumi. Noi abbiamo vissuto, pad alla mano, ogni avvenimento che scrive la sua storia. Attraverso Joel la comprendiamo perché, in un momento specifico di The Last of Us, gli fa presente che non è il solo ad aver sofferto per la perdita di qualcuno. Ellie, in Left Behind, perde la sua migliore amica a causa degli infetti. Lei sopravvive perché scopre di essere immune, Riley muore per paura di quello che potrebbe diventare dopo quel morso. Da quel momento solo un bacio sfuggente persisterà nel cuore di Ellie come ricordo di Riley.
Qui si apre un dibattito sulla sua sessualità, ma è divertente questo: aprirne uno per spiegare la sessualità di qualcuno. Chi comprenderà la naturalezza della scrittura di Ellie, che è un personaggio e una persona viva presente in un mondo proposto attraverso l’interazione con la profondità del suo modello poligonale, andrà oltre a qualcosa che, nel 2020, dovrebbe quantomeno essere preso con naturalezza, non come un motivo per arrivare a una frangia come se fosse quello l’obiettivo finale anziché raccontare una storia.
Joel è un uomo che ormai, in parte, si è arreso alla vita. Come chiunque non ha il coraggio di farla finita, ma spera che arrivi il momento molto presto. L’orologio che porta al polso, regalo di Sarah, testimonia una sua rottura col mondo, un suo stallo: non avanza né progredisce; resta impantanato in una situazione che, a causa degli eventi, lo porta a essere un cinico, a preoccuparsi più di una paga che di una ragazzina che compare all’improvviso. Insegna a Ellie a sparare, ad apprezzare il mondo nonostante ormai rimanga poco di quest’ultimo e l’unica cornice a colorarlo è l’erba alta di una città che nasconde il grigio poiché, l’unica ad averne giovato, è la natura che si riprende i suoi spazi.
La brutalità risiede anche in questo, nel primo The Last of Us: la civiltà e ciò che si era raggiunto è ormai un ricordo intimo. Chi nasce in questo mondo come Ellie non conoscerà mai ciò che ha offerto l’altro, se non attraverso i libri. A Joel non passa per la testa di raccontarle il mondo passato perché ormai è rimasto poco, se non citando dei libri e raccontandole alcune testimonianze dei sopravvissuti.
Una delle poche espressioni, capaci realmente di accompagnare questo momento, è quando le giraffe, una volta prigioniere all’interno di uno zoo, sono libere di muoversi in una città devastata, ricoperta di vegetazione. In quel momento l’umanità riesce a divenire totalità e profondità della vita, dello spessore del mondo, della sua reale bellezza. Quello è uno dei pochi momenti di pace all’interno di The Last of Us.
Manca un giorno a The Last of Us Part II. Dopo mesi duri a causa dei leak, degli spoiler e delle polemiche su Ellie e il suo orientamento sessuale, o sulla violenza (comunque argomentata al suo interno), questo è un approfondimento che mira più che altro alle sensazioni e alle aspettative che ognuno vive ormai dal suo primissimo annuncio.
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