La tecnologia senza guida causa apartheid? Non proprio.
Il 31 maggio 2020 è apparso, sulle pagine del Corriere della Sera, un articolo a firma di Luigi Ippolito dal titolo “La tecnologia senza guida causa apartheid” in cui il giornalista (e corrispondente da Londra) presentava An Artificial Revolution: On Power, Politics and AI (Una rivoluzione artificiale: potere, politica e Intelligenza artificiale), libro recentemente uscito in digitale per la britannica Indigo Press scritto da Ivana Bartoletti.
Technical Director per la Privacy di Deloitte, la Bartoletti ha intrapreso un percorso di militanza politica che l’ha portata a diventare presidente della Fabian Society, la più antica fondazione della sinistra britannica. Ha inoltre creato il network Women Leading in AI, che si prefigge l’obiettivo di ampliare la presenza femminile nelle nuove tecnologie.
Di per sé, il libro in questione e l’articolo apparso sulle pagine del Corriere sarebbero anche innocui. Si tratta infatti di una disamina delle idee di una donna forte e con degli ideali ben definiti a metà tra il suo lavoro nel mondo dell’ICT (Information and Communication Technology) e le sue idee politiche.
«In questo preciso momento pochi umani, principalmente maschi, stanno pilotando la tecnologia che pilota tutti noi. Il mio libro argomenta che abbiamo bisogno di rimettere la politica e le idee al posto di guida. I dati hanno le stesse caratteristiche del capitale: accumulazione, diseguaglianza, patriarcato. La nostra risposta al coronavirus è costruita sugli ecosistemi tecnologici descritti nel libro, fatti di “datificazione” e sorveglianza, e sulle dinamiche di potere sottese al nostro mondo digitale. Il dibattito attorno alle app di tracciamento è un chiaro esempio: come sfruttiamo il valore dei dati per la salute pubblica è una questione cruciale del nostro tempo. Non sono a mio agio con una privacy vista solo come diritto individuale, dobbiamo concepirla come un valore collettivo: proprio nella pandemia abbiamo visto che c’è qualcosa di collettivo nei dati privati»
Si tratta sicuramente di posizioni condivisibili e gli stessi dubbi che si pone l’autrice in merito alla privacy sono sulla bocca di molti.
Dov’è quindi il problema?
Verso la fine dell’articolo in questione, un breve paragrafo ha attirato l’attenzione di tanta gente che il mondo dell’ICT lo vive sulla propria pelle, specialmente in questi tempi in cui tanto si parla di intelligenza artificiale.
«L’intelligenza artificiale è entrata nelle nostre vite: Alexa è nelle nostre case. Ma non è un caso che l’assistente virtuale sia sempre una donna…Quella rappresentata da Alexa è una forma di servitù digitale: lei non è lì per contraddirti, non può ribattere, può solo eseguire i comandi. Ormai anche i bambini le impartiscono ordini. E il motivo è che a programmarla sono i maschi».
É facile capire da queste dichiarazioni la chiara spinta socialdemocratica della Bartoletti. Non a caso il fabianesimo è stato un movimento essenziale per la formazione del Partito Laburista. Ci sembra però il caso di dover fare alla Bartoletti, semmai arriverà a leggere queste righe, alcune precisazioni in merito alle sue affermazioni.
Può sembrare strano che una testata online semi-sconosciuta del panorama italiano voglia fare da “maestrina” a una potente donna della politica britannica ma il nostro progetto (in particolare nella figura dell’autore di questo articolo), viste le profonde connessioni con il panorama ICT, per semplice passione o per lavoro, sente la necessità di dire la sua su un tema che potrebbe essere facilmente frainteso.
Capiamo la necessità di fare propaganda e sicuramente non ci saremmo aspettati posizioni diverse da parte di una persona preparata e di successo che ha fatto della lotta alle disuguaglianze un obiettivo di vita.
Ci sembra però sbagliato parlare di “patriarcato” e “maschilismo“, senza contestualizzare bene i temi che si vanno a criticare.
La voce femminile
Innanzitutto ci sembrava necessario sfatare il discorso della “servitù digitale” e della voce femminile degli assistenti. Partiamo da un fatto che potrebbe sfuggire ai più: indipendentemente dal sesso, tendiamo a preferire le voci con tono più basso.
I risultati di uno studio pubblicato su PLOSOne ci spiegano che le voci basse, considerate voci “mascoline”, sono una risorsa in più per coloro che cercano ruoli di leadership, in politica o altrove. E questo è in parte dovuto al fatto che preferiamo le voci basse perché il modo in cui diciamo qualcosa trasmette molto di più rispetto alle parole effettivamente pronunciate: percepiamo gli uomini con tonalità di voce più bassa come più attraenti e fisicamente più forti – e anche più competenti e più affidabili – rispetto alle voci più acute. E percepiamo allo stesso modo anche le donne con le medesime tonalità basse.
Alla luce dei risultati di questo studio, allora, sorge spontanea una domanda: perché, se inconsciamente tendiamo a preferire le voci più basse, voci apparentemente “maschili”, la maggior parte degli assistenti vocali ha di default una voce femminile?
La risposta a questa domanda si intreccia a doppio filo con il discorso appena fatto sulle basse tonalità di voce. É stato infatti dimostrato che anche il tono di voce delle donne si sta abbassando, arrivando in alcuni casi a picchi facilmente assimilabili a tonalità che fino a poco tempo fa erano prerogativa di individui maschili.
Alcuni ricercatori hanno confrontato le registrazioni d’archivio di donne che parlavano nel 1945 con registrazioni più recenti effettuate nei primi anni 90. Il team ha scoperto che la frequenza fondamentale è scesa di 23 Hz in cinque decenni – da una media di 229 Hz a 206 Hz. Una differenza significativa e percettibile.
Il motivo di questo drastico calo di tonalità?
I ricercatori hanno ipotizzato che l’abbassamento di tonalità sia dovuto alla sempre più frequente ascesa delle donne a ruoli importanti nella società, quali leadership politiche ed aziendali, portandole ad adottare un tono più profondo per proiettare autorità e dominio sul posto di lavoro.
É da specificare che, in base a quanto detto poc’anzi, questa necessità di adattarsi a tonalità “mascoline” non è indice di maschilismo o patriarcato, come qualcuno potrebbe erroneamente pensare. Si tratta semplicemente del modo in cui funziona il nostro cervello.
A questo punto è chiaro che il nostro cervello apprezza indistintamente le voci con tonalità più basse, siano esse maschili e femminili. Ma tra le due voci, a parità di tonalità, quale preferiamo maggiormente? E perché?
Ulteriori studi hanno dimostrato che il cervello umano reagisce in modo migliore alle voci femminili che rientrano in un determinato range di tonalità. La spiegazione più semplice potrebbe essere che le persone si aspettano che siano le donne, non gli uomini, a ricoprire incarichi amministrativi e assistenziali e che i creatori di assistenti digitali siano influenzati da queste aspettative sociali. Ma forse c’è dell’altro.
“È molto più facile trovare una voce femminile che piaccia a tutti piuttosto che una voce maschile che piaccia a tutti“, ha detto il professor Clifford Nass docente di comunicazione di Stanford alla CNN nel 2011. “È un fenomeno consolidato che nell’essere umano il cervello è sviluppato per amare le voci femminili.”
La ricerca suggerisce che questa preferenza inizi già nel grembo materno. Nass ha citato uno studio in cui alcuni feti reagivano al suono della voce della madre. Tuttavia, gli stessi feti non hanno mostrato alcuna reazione alla voce del padre.
Viene quindi sa se il motivo per cui, almeno in passato, molti assistenti vocali e navigatori GPS avevano una voce femminile. Il cervello umano è semplicemente più predisposto ad ascoltare la voce di una donna per motivi che ancora nemmeno noi siamo in grado di spiegare bene.
Niente patriarcato quindi, semplici strategie di marketing supportate da studi e ricerche. C’è da dire comunque che, ad oggi, molti assistenti vocali permettono di scegliere tra una voce maschile e una voce femminile.
Le quote rosa nel mondo della programmazione
Arriviamo quindi al secondo punto della questione. Ovvero la presunta prevalenza di individui maschili nel mondo della programmazione. È innegabile che ancora oggi ci sia un considerevole dislivello tra uomini e donne impiegati nel mondo dell’ICT, sarebbe ipocrita affermare il contrario. Il motivo di questa disparità (che si sta comunque riducendo anno dopo anno) è imputabile a tanti fattori, tra i quali sicuramente spicca lo stereotipo che ancora vede le donne indirizzate a lavori creativi.
In questo senso ci teniamo a citare un altro articolo sempre del Corriere in cui la stessa Ivana Bartoletti arrivava a delle considerazioni che condividiamo in pieno, ovvero che:
“È singolare che in India le programmatrici siano soprattutto donne mentre nei Paesi sviluppati le ragazze si indirizzino ai lavori creativi, disdegnando le carriere scientifiche.”
Crediamo sia tuttavia sbagliato, ai fini del discorso relativo al maschilismo negli assistenti digitali, usare queste argomentazioni per parlare di una presunta mancanza di donne che lavorano su questi progetti.
Alexa, in particolare, è donna non solo per la voce ma anche per il team che l’ha realizzata. La stessa Bartoletti, probabilmente, ignora quanto stiamo per scrivere e ha preferito parlare di carenza di donne per supportare le sue tesi. Tesi che sono sicuramente valide e condivisibili, ma non per questo devono essere ingigantite e sostenute da dati non veritieri.
Siamo sicuri che sarà molto sorpresa di scoprire come dietro alla creazione di Alexa ci siano molte donne che hanno ricoperto dei ruoli fondamentali di ricerca e sviluppo.
Miriam Daniel, Vice President of Product Management, è attualmente a capo della divisione Echo & Alexa di Amazon.
Daniela Braga, Founder e CEO di DefinedCrowd, una startup AI in rapida crescita che fa parte del portfolio Amazon Alexa. Daniela ha anni di esperienza nel campo della tecnologia vocale, sia in ambito accademico che industriale.
Sarah Caplener, Senior Manager of Alexa for Everyone, si occupa di rendere Alexa una parte fondamentale della vita dei clienti con disabilità, di clienti anziani e assistenti familiari.
Milkana Brace, Founder e CEO di Jargon.com, azienda che consente alle applicazioni vocali come Alexa di strutturare, gestire e ottimizzare i loro contenuti.
Michelle Lalljie, Senior Manager, Alexa Voice Services, guida il team di Alexa Voice Services (AVS) per Amazon.
Kate Stone, Founder di Novalia, altra azienda del portfolio Amazon Alexa che sviluppa superfici di carta interattive che si collegano ad Alexa. Utilizzando una piattaforma Bluetooth e sensori tattili, gli utenti possono acquisire dati tramite il tocco e visualizzare le interazioni in tempo reale.
Priya Abani, Director of Alexa Voice Services device enablement, lavora a contatto con i produttori di dispositivi per integrare Alexa in modi e prodotti sempre nuovi.
Si tratta di sette nomi di sette donne il cui lavoro è stato essenziale per avere l’assistente vocale di Amazon come lo conosciamo oggi. Abbiamo preso l’esempio di Alexa perché citato direttamente nell’articolo, ma andando a spulciare nella storia dei servizi concorrenti, non mancheranno le donne di successo.
Un monito per il futuro
Speriamo che in qualche modo queste nostre parole possano arrivare all’attenzione della diretta interessata, di certo non come un insulto o una critica al suo operato, innegabilmente prolifico ed essenziale per la lotta alle disparità, ma come un invito a dosare meglio le parole e non mettere il patriarcato e il maschilismo in ogni discorso, anche quando, a conti fatti, non ci sono i presupposti.
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