Demon’s Souls è… “uno schifo, un gioco incredibilmente brutto!”
Shūhei Yoshida esce da una sessione di due ore su di una nuova IP in fase gold; sudato, irritato, visibilmente contrariato. Ciò che ha visto non gli è piaciuto, anzi ed eufemismi a parte, gli ha provocato disgusto. Una serie di domande gli rimbomba nelle tempie, anche se il dubbio che si tratti semplicemente dei postumi derivanti da quel maledetto titolo si fa presto strada nella sua testa. “No, Shūhei, di domande ce ne sono” ed anche di quelle alle quali devi saper rispondere, se ricopri un ruolo di rilievo per una grande azienda; nessuno spazio per incertezze o temporeggiamenti di sorta. “Perché dovrei decidere di investire il denaro dell’azienda per cui lavoro in un progetto al quale non credo? Perché proprio ora che sono stato nominato a capo degli studi di sviluppo worldwide? Dovrei permettere di distribuire questo scempio nelle terre dei Gaijin dal palato fine e a nome nostro?” Tali quesiti trovarono effettivamente risposta, ma non si trattò di una di quelle da narrativa spicciola, trainata dai “buoni sentimenti”. No… di quella, nel mondo reale, difficilmente se ne vede l’ombra: specie in questioni di vile denaro, ed in particolare se quel denaro non è il tuo, ma del tuo “capo”! Si optò per mediazione e scala di grigi, sulla base di compromessi che permisero a tutti gli attori in causa di ottenere il massimo risultato, con un minimo rischio. Come andò a finire è ormai storia, ma c’è ancora spazio per speculazioni e quesiti ulteriori, anche per noi consapevoli “spettatori del futuro”: Cosa sarebbe successo se Yoshida si fosse impuntato ed il progetto fosse effettivamente naufragato? Cosa, se non fossero intervenute Atlus per la distribuzione in Nord America e Namco per quella in Europa? Cosa avrebbe perso il settore ai giorni nostri e come sarebbe stato quello degli anni ‘10 del nuovo millennio in assenza? Cerchiamo di rispondere insieme a queste domande, fantasticando su come sarebbe potuto essere ieri e, di riflesso oggi, il mercato videoludico se privato di questo titolo specifico. Si trattava del lontano 2008; l’azienda, Sony Interactive Entertainment; il gioco in questione, invece, era il mitologico Demon’s Souls.
IL CONTESTO
Siamo in un’epoca di transizione per il medium videoludico. La settima generazione di console, almeno in casa Sony, è stata lanciata da un paio d’anni scarsi e la sensazione generale è che si tratti di un’era di grande sperimentazione. Iniziano a fioccare titoli sempre più curati in termini narrativi e sempre meno elaborati sul versante del gameplay. Le storie devono essere accessibili a tutti e l’interesse si sposta dal giocato alla sua forma. Si tratta di un lungo e tortuoso processo di avvicinamento al cinema, ancora oggi in corso, che ha visto come più illustri apripista proprio due titoli, Metal Gear Solid 4: Guns Of The Patriots ed Uncharted 2, capaci di vincere nei rispettivi anni lo scettro di Game Of The Year ai VGA di Spike TV – cerimonia più modesta e scanzonata degli attuali TGA, che ha beneficiato proprio dell’evoluzione del medium per reinventarsi nello show milionario che tutti conosciamo. Esempio emblematico delle semplificazioni ludiche dell’epoca è rappresentato dal reboot del franchise di Prince Of Persia del 2008: un combat system ridotto all’osso, sia per manovre che per numero effettivo di scontri e l’assenza di un vero e proprio “Game Over” facevano da contraltare ad un grande sforzo degli sviluppatori sul comparto artistico del titolo. La questione fu motivo di grande dibattito nei forum del tempo e tra gli appassionati in generale, tanto che nello stesso sottobosco internettiano e tra gli stessi fruitori di videogiochi serpeggiava un flebile ma deciso malcontento nei confronti dell’andazzo del mercato. Chiariamoci, nessuno criticava apertamente la deriva presa dai titoli, né il fatto che si cercasse di elevarli a nuove vette d’intrattenimento. Molti erano semplicemente orfani del gameplay appagante dei “giochi di una volta”, quelli in grado di mettere alla prova le capacità ed i riflessi dei giocatori, senza facilitazioni di sorta; certo, i titoli tecnici non mancavano: basti pensare come il 2008 sia anche l’anno d’uscita del quarto capitolo di Devil May Cry; ma si sentiva l’esigenza di un reale scossone al panorama videoludico, qualcosa di non derivativo e che una nicchia d’utenza non ravvisava propriamente nell’avvicinamento del proprio passatempo preferito a tutt’altro medium.
In questo contesto, l’uscita di Demon’s Souls rappresentò il più proverbiale dei fulmini a ciel sereno. Si trattava di un titolo in grado di mettere in difficoltà i giocatori tramite un tattico sistema di Strategic Swordplay. Vanno per la maggiore i titoli in cui l’hack&slash è frenetico? La nostra proposta, invece, ti porta a ponderare su ogni singolo fendente. Un errore costa carissimo ed i sistemi di peso equipaggiato e stamina portano a scendere a numerosi compromessi; I checkpoint al giorno d’oggi sono frequentissimi? Il nostro gioco te ne lascia uno ad ogni area completata. Che tu fallisca all’inizio della stessa o ad un metro dal traguardo, non fa differenza. La sensazione di terrore del giocatore è tangibile in ogni angolo di Boletaria, con la consapevolezza che, in caso di morte prematura, non si sarebbero perse solo le anime conquistate col sudore di fronte e dei polpastrelli – punti esperienza e unica valuta in game – ma che si sarebbe dovuto ricominciare il livello daccapo, blasfemie e fantasioso turpiloquio inclusi; Le cutscenes cercano di avere sempre di più un taglio cinematografico? Il nostro titolo ha scene d’intermezzo centellinate, quasi nessuna parlata, la narrativa viene relegata alla descrizione degli oggetti nell’inventario ed allo sforzo interpretativo dello stesso giocatore. Demon’s Souls si allontana dal medium cinematografico proprio nel momento in cui va di moda attingerne, rendendo la propria narrativa meta-interattiva. Un puzzle in cui non tutti i pezzi sono presenti, ma ce ne sono abbastanza per permettere al videogiocatore di risolverne le lacune. Gli stessi forum in cui ci si rammaricava della piega del mercato dell’epoca divennero terreno fertile per speculazioni e teorie su Demon’s Souls, le quali sarebbero esplose definitivamente sul web con l’avvento del più celebre dei suoi successori spirituali.
IL DECENNIO SOULSLIKE
Una delle prime cose a cui si pensa quando si parla di Dark Souls, per merito o colpa anche dei meme, è l’incredibile difficoltà ascritta al titolo From Software. In verità, si tratta di una parte molto marginale – per quanto enfatizzata dalla stessa software house e dal distributore Bandai Namco in sede pubblicitaria – nell’economia dell’eccezionale successo di quest’action-rpg. Il titolo smussa tutto ciò che di buono c’era in Demon’s Souls, edulcorando i suoi lati più frustranti, aggiungendo o rifinendo manovre offensive al combat system, raffinandone le meccaniche difensive e perfezionando la sua tecnica narrativa. Più di tutto ciò, però, quello in cui Dark Souls resta insuperato è il suo magnifico level design: eliminata la vetusta stuttura a livelli che ne limitava la visione creativa, From Software presenta la sua personale versione di un “open-world”. Gli sviluppatori prendono a piene mani dagli stilemi tipici dei Metroidvania, inserendoli all’interno di un mondo realizzato in tre dimensioni. A Lordran puoi muovere i tuoi primi passi dove ti pare – YOU DIED permettendo – ma la fruizione delle aree è strettamente legata alla loro intrinseca interconnessione.
Se ciò si era già visto nelle singole aree di cui era composto Demon’s Souls ora, con perizia ed un pizzico di maniacalità tutta nipponica, l’intero mondo di gioco è un dedalo di strade, stradine e scorciatoie che collegano, cuciono i vari setting in maniere spesso soprendenti per il videogiocatore. L’assenza di una mappa o del teletrasporto, almeno nella prima metà del titolo, e la spasmodica ricerca dei falò – i nuovi ed iconici checkpoints del titolo – servono a creare quel misto di immersione, senso di scoperta e timore nelle menti e nei cuori degli sventurati chosen undeads che vi si avventurano per la prima volta, riuscendoci dannatamente bene. Il lascito di Demon’s Souls tocca il punto di non ritorno. Un nuovo modo di concepire il videogioco si fa strada tra appassionati ed addetti ai lavori. S’inizia con l’ispirazione, per poi passare alla presa in prestito delle meccaniche, sino alla nascita di un vero e proprio sottogenere: comincia l’era dei Soulslike!
Rapiti sia dal vincente elemento ludico che dal “mero” successo di critica, pubblico e vendite, decine di sviluppatori tentano di replicare la formula di gioco dei titoli From Software. Alcuni senza ottenere altrettanto successo, come accaduto per Lords of The Fallen, Immortal Unchained o The Surge; altri con risultati decisamente più confortanti, come per Nioh o Code Vein. In generale gli ultimi titoli citati hanno in comune l’interiorizzazione di elementi soulslike, senza rinunciare ad un vincente utilizzo di un tocco personale che ne differenziasse il contenuto. Altri titoli, ancora, ne hanno mutuato le atmosfere, qualche meccanica o la gestione dei checkpoint, come nel caso di metroidvania estremamente apprezzati come Hollow Knight, Blasphemous e Salt&Sanctuary. Non sono mancati anche veri e propri esperimenti e stravolgimenti a quella formula, al di là di ciò che è successo all’interno della stessa From Software con l’apprezzatissimo Bloodborne, grazie a titoli come Sinner o Remnant: From The Ashes. Alcuni elementi hanno addirittura ispirato brand storici o innovatori assoluti del medium, basti pensare all’espediente narrativo dei ricordi in The Legend of Zelda: Breath of The Wild, pezzi d’un puzzle che sta al giocatore ricercare, se lo ritenga necessario, senza gravare sul gameplay e sulla libertà d’azione, Re e Regina incontrastati del titolo Monolith; L’ispirazione è palese anche da parte di Hideo Kojima il quale, per il suo Social Strand System in Death Stranding, prende a modello lo stesso multiplayer asincrono basato sui segni visto in Demon’s Souls, ampliandolo, perfezionandolo, mettendolo al centro di una visione d’insime più grande e sfaccettata. Non è ironico come lo stesso fautore di un modello che avvicinasse i videogiochi al cinema si trovi a prendere ispirazione dall’altra parte della barricata?
SATURAZIONE E SUPERAMENTO
Quanto detto in precedenza rende Demon’s Souls il titolo più influente dell’ultimo decennio, ma lo fa a quale prezzo? La saturazione del mercato ha reso l’etichetta di “Soulslike” sinonimo anche di titoli non all’altezza, risultando ultimamente in un rigetto da parte dei videogiocatori. Certo, come emerge dall’analisi, la mancata uscita sul mercato di Demon’s Souls avrebbe drasticamente cambiato i connotati agli ultimi dieci anni videoludici, nei quali forse ci sarebbe stato comunque un ritorno al gameplay duro e puro, ma in maniera molto diversa da come si manifesta attualmente. Basti pensare all’incredibile bacino d’utenza raccolto tuttora dalle Battle Royale e a come, di converso, scossoni del genere in ambito singleplayer non ci sarebbero stati. Forse, ad oggi, saremmo stanchi di titoli Story-Driven con narrativa esplicita tutti uguali tra loro, risultando nella definitiva disfatta della lunga epopea del player 1. Che sia utopica o distopica questa versione alternativa del nostro presente, l’attualità videoludica ci dice che From Software ha sempre scelto di non adagiarsi sugli allori, cercando di reinventarsi senza sosta mentre gli altri interiorizzavano le meccaniche dei loro titoli: il superamento dei soulslike è un passo necessario per dare nuova linfa vitale alla scena, come già accaduto nel 2009 proprio con l’uscita di Demon’s Souls. Già nello scorso anno Sekiro: Shadows Die Twice ha segnato una netta inversione di tendenza rispetto ai giochi che hanno fatto la fortuna della software house nipponica negli ultimi anni, conservandone sapientemente le caratteristiche che li rendevano speciali. Via l’impianto ruolistico, ridotto all’osso, per un action che sa di Rhythm Game e che stupisce per l’uso del rampino e la conseguente verticalità dei livelli, portandola a vette inesplorate per ciò che concerne Hidetaka Miyazaki e soci. Restano, invece, i checkpoint a la “bonfire”, un mondo di gioco interconnesso e lo stile narrativo criptico – per quanto smussato ulteriormente rispetto ai vari Dark Souls e Bloodborne. A riprova della carica innovativa di questo progetto, lo stesso Sekiro, vincitore ai The Game Awards 2019 come Game of The Year, gode già d’un illustre emulo sia nei rudimenti del combat system che nella tecnica di world building: Star Wars Jedi Fallen Order. Il titolo di Respawn, diretto dal veterano Stig Asmussen (God of War III), è balzato agli onori della cronaca per aver riportato sugli scaffali un singleplayer-only su licenza Star Wars davvero inattaccabile, grazie ad un brillante mix di combattimento melee, poteri della forza e cinematiche al cardiopalma.
Il futuro riserva un’ulteriore scossone in casa From, con quello che sembra essere un open-world più canonico, il ritorno ad un impianto ruolistico strutturato ed uno stile narrativo più esplicito, grazie anche all’incredibile collaborazione con G.R.R. Martin: il progetto Elden Ring. Che sia solo un modo per agganciarsi alle mode del momento lo troviamo improbabile, da Demon’s Souls in poi la casa di Tokyo non ha riservato delusioni, fornendo ai giocatori una carica innovativa difficilmente riproducibile nel mondo dei tripla A. L’hype e le aspettative per la “next big thing” sono altissime, ma si sa che più sono grossi e maggiore è il tonfo quando cadono: dopo aver segnato un decennio con la propria visione, nessuno è intenzionato a concedere loro un passo falso, anche se non è escluso che l’obiettivo sia un reboot delle iterazioni passate, riviste e migliorate sulla scorta di un’esperienza decennale nel campo dell’innovazione videoludica. Che il loro prossimo progetto stupisca o deluda, nessuno può sindacare sull’inestimabile contributo di Demon’s Souls al mondo del nostro intrattenimento preferito… Un mondo che, per un istante, ha rischiato di essere diversissimo da come lo conosciamo.
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