Pioggia di ricordi non ha nessun nemico da sconfiggere, nessuna principessa da salvare, nessun espediente magico o elemento fantastico; soltanto la meraviglia della realtà, ancora una volta sapientemente descritta da Isao Takahata.
Una storia che mentre viene raccontata ci invita a ripercorrere la nostra, costruita un ricordo alla volta.
Pioggia di ricordi è la storia di Taeko, impiegata in uno dei tantissimi uffici di Tokyo, che nel 1982 decide di trascorrere le sue ferie per la seconda volta in campagna.
A differenza del suo primo viaggio, nel quale si era dedicata alla mietitura del riso, fa una scelta più ricercata alla riscoperta dell’antica tradizione della raccolta del cartamo. Parrebbe quasi un ritorno all’infanzia, alla casa di campagna di quando si era bambini, se non fosse che Taeko è nata e cresciuta in città.
Così ignorando gli inutili tentativi di una delle due sorelle di farla desistere, trascorrerà due settimane pervasa da una falsa nostalgia di una casa mai avuta, alla quale si sovrapporranno i suoi veri ricordi.
In nessun luogo e in nessun tempo
“Dai, dai per le vacanze estive andiamo da qualche parte?”
“Nulla di che.”
“Dai, dai portatemi da qualche parte.”
“Ti porterò al cinema.[…]”
“Ma non intendevo questo, da qualche parte in campagna.”
“In campagna?”
“Esatto, tipo casa di nonnina in campagna.”
“Ma se nonnina sta qui da noi.”
“Nonnino?”
“Che è morto, no? Noi non abbiamo la campagna, non chiedere quel che non c’è per piacere.”
La campagna evoca in Taeko un senso di effimera nostalgia di luoghi distanti e mai conosciuti, rivelandosi pian piano per quello che davvero è, ovvero non un sentimento evocato da un luogo fisico che ci ricordi qualcosa del passato, ma una sensazione che si aggrappa a uno stato di inconscia infelicità del presente.
I ricordi di Taeko arrivano dal 1966, ma le date, proprio come i luoghi in questa storia, non sono importanti, se non per la scelta degli elementi da descrivere per delineare ciò che ha segnato una generazione piuttosto che un’altra, ovvero le mode nel vestire, i nomi dei gruppi di successo o le importanti conquiste sociali.
Tutti elementi che ritroviamo nei ricordi di ogni generazione, ma che nel momento in cui vengono definiti, come l’introduzione della minigonna, l’emancipazione femminile o l’arrivo dei Beatles in Giappone, si collocano in una precisa fascia temporale e influiscono dunque su una determinata generazione.
A essere importanti sono il presente e il passato in quanto tali, senza essere necessariamente collocati in un dato tempo.
L’età della spensieratezza
Un primo amore che ci fa ancora sorridere a distanza di anni, iniziare a scoprirsi donne in un corpo che cresce e quindi cambia, la complicità del segreto condiviso, la nascita del pudore e la tenerezza dell’imbarazzo.
I capricci, i primi no di un padre severo che paiono ingiusti agli occhi di un bambino e il tentativo adulto di provare a comprenderli, a volte riuscendoci, altre no.
Il primo schiaffo di un genitore che a distanza di anni fa ancora male, su di una guancia che se ricordando sfioriamo, possiamo ancora sentire pulsare.
Le esperienze di Taeko bambina ci arrivano dal manga Omohide poro poro, scritto da Hotaru Okamoto, illustrato da Yūko Tone e rieditato poi da Tokuma Shoten. Isao Takahata decide di fare di queste esperienze dei ricordi, grazie ai quali riuscirà a costruire per noi una Taeko adulta.
I ricordi degli altri che sono anche i nostri.
É tutto assolutamente realistico, tutto assolutamente vero.
I ricordi di Taeko ci raccontano di dinamiche comuni che si realizzano però in particolari contesti, ma nelle quali possiamo riconoscere e ritrovare anche qualcosa del nostro passato. La sensazione di dolce nostalgia che pervade la protagonista è la stessa che Takahata riesce a suscitare in noi, che non possiamo fare altro che sorridere pensando “questa potrei essere io”.
Rinunciare al proprio passato
Taeko è nata in città, ma ha sempre sognato la campagna per costruire i propri ricordi felici delle sue estati da bambina, per poi scoprire a 27 anni di esserci comunque riuscita senza il bisogno di prati verdi, boschi e ruscelli.
Dei ricordi che certamente sono diversi da come li avrebbe voluti, ma comunque presenti e ben radicati nella sua memoria.
“Capisco, ed è per questo che mi da nostalgia. Anche se non ci sono né nata né cresciuta, come mai qui ho una sensazione di terra natia? Ci pensavo da tanto tempo. Ecco com’è che era.”
La campagna che per anni ha idealizzato essendo un qualcosa così lontano dalla sua città, fatta di uffici, palazzi, strade e pensioni a buon mercato, si mostra per la prima volta a Taeko da adulta.
La campagna è proprio come l’aveva sempre immaginata, ma Taeko a un certo punto non riesce più a riconoscerla. A essere diverso non è il paesaggio che le si presenta, ma lei, ora cresciuta abbastanza per rendersi conto che anche quella non è che un prodotto dell’uomo.
Diversa dalla città, sicuramente più armoniosa, ma comunque un artificio dell’uomo sapientemente mascherato dietro a nuovi termini come quello di “coltura biologica“, ennesimo tentativo, più o meno riuscito, di un ritorno alle origini, a quando tutto, sempre nel gioco di una nostalgia illusoria, era migliore.
“Ah è infatti è qui che siamo in campagna, in autentica campagna. […]”
“…le persone di città vedendo foreste, boschi o corsi d’acqua dicono subito – É natura, è natura – con un senso di gratitudine, no? Però beh, a parte gli eccessi montani il paesaggio della campagna è tutta roba fatta dall’uomo.”
“Dall’uomo?”
“Già, dai contadini.”
“Anche quella foresta?”
“Già.”
“E quel bosco?”
“Già.”
“E questo ruscello?”
“Già, non sono solo le risaie o i campi coltivati, ma tutta quanta la sua breve storia eh? Tipo che un bisnonno di questo o di quel posto ha piantato lì o allargato là; o che dai tempi antichi ci raccoglievano legna da ardere, foglie secche o funghi […] mentre gli uomini tiravano avanti combattendo contro la natura e prendendo varie cose dalla natura si è andato a definire per benino un paesaggio che questo qua.”
“Quindi se non ci fosse stato l’uomo non si sarebbe avuto un simile paesaggio?”
“Se i contadini non continuassero a prendere costantemente dalla natura non riuscirebbero a vivere, no? E quindi anche per la natura eh? Per fare in modo di farla vivere a lungo pure da parte dei contadini se n’è fatte svariate. Beh, si potrebbe dire una collaborazione tra natura e uomo, forse la campagna è una cosa così.”
Ma se davvero ne avessimo l’opportunità saremmo disposti a rinunciare alla nostra epoca per vivere in un tempo che non sia il nostro, per poi magari scoprirlo diverso da come lo avevamo idealizzato, rischiando di rimanerne persino delusi?
Scambieremmo la nostra infanzia con quella del bambino che invidiavamo senza cattiveria da piccoli? E se da piccoli non eravamo sempre esauditi com’è che ora continuiamo a rifugiarci dentro a quei ricordi, come se fossero il nostro unico porto sicuro tra le acque agitate del nostro presente?
Dopotutto siamo quello che siamo grazie a questi, dunque la domanda vera da porsi è una: senza i nostri ricordi saremmo davvero noi stessi?
L’esotico, il diverso, ciò che è lontano ci affascina perché quando non riusciamo a trovare la felicità vicino a noi, nel nostro quotidiano, l’unica consolazione che ci rimane è la ferma convinzione di non averla ancora incontrata.
Proprio come Taeko che tanto ha bramato di assaggiare un ananas che non fosse confezionato.
Lo assaggia e ne scopre la doppia amarezza, quella del frutto non addolcito dall’industria che comodamente glielo serviva in un barattolo di latta del supermercato, e quella della delusione che i frutti nel suo frigo, proprio sotto il suo tetto, in realtà le piacessero molto di più.
Ma Taeko non è più una bambina e quando le si presenta la possibilità di coronare il suo sogno d’infanzia e di vivere quindi come aveva sempre desiderato, qualcosa la turba.
Dovrebbe, vorrebbe essere felice, ma non ci riesce.
“Diventare la sposa di un contadino, non avevo neanche provato a pensarci.
Il solo dire che un simile modo di vivere sarebbe stato possibile anche per me mi aveva dato una misteriosa emozione. […] Il mio frivolo amare la campagna, il mio giocare al lavoro agricolo erano diventati tutti in una volta delle cose per cui sentirmi in colpa. Senza neanche conoscere la realtà dell’agricoltura nei rigidi inverni, io avevo sciorinato una sequela di – Ma che bel posto – e me ne vergognai. Io non ero capace di alcuna risoluzione, di questo se ne erano accorti tutti. Lì non avevo più retto.”
Taeko, proprio come voleva essere la bambina che amava l’ananas, vorrebbe essere l’adulta che ama la campagna, non solo una volta l’anno. Passarci due settimane è ben diverso dal trascorrerci un’intera vita.
Questa volta non si tratta di forzarsi a finire un intero frutto amaro; deve fare una scelta, guardarsi dentro ed essere onesta con se stessa.
In quanti si possono ritrovare nella protagonista? Anche se desideri, vita, età sono diversi non è assolutamente difficile condividerne la preoccupazione del doversi affermare e di doversi definire.
Capire chi si è e cosa si vuole davvero essere.
Liberarsi dunque di quell’immagine di se che avevamo costruito da piccoli e renderci conto che la persona che desideravamo essere è in realtà diversa da quella che vogliamo ora;
Il tutto senza neanche essere sicuri di cosa si voglia davvero.
Eppure rimaniamo legati a quell’immagine sfocata dell’adulto che volevamo essere e ci sentiamo in debito verso il bambino che l’aveva disegnata.
Il rosa non è che un ricordo del rosso
Gli stessi colori con i quali questa storia viene “dipinta” sono delicati, quasi sbiaditi, fatta eccezione per alcuni casi.
Eppure c’è un colore che supera per intensità tutti quelli che appaiono in pellicola.
Si tratta del colore rosso dei rossetti prodotti grazie alla lavorazione del cartamo.
Colore che grazie alla maestria di Takahata riusciamo a vedere perfettamente, non attraverso le immagini che ci mostra nel film, ma grazie a quelle mentali che sapientemente costruisce e riesce a rendere vive nel nostro immaginario.
“Da questi fiori gialli come potrà mai nascere un vermiglio così vivido? La cognata Kiyoko mi insegnò una triste leggenda.
Nei tempi passati cose come i guanti di gomma non c’erano. Le fanciulle coglievano i fiori a mani nude e pungendosi le dita con le spine, sanguinavano. Quel sangue si diceva rendere ancora più intenso il colore rosso. Fanciulle che in tutta la vita non avrebbero messo del rossetto sulle labbra. Avevo come l’impressione di poterne sentire le voci astiose verso le sgargianti donne della capitale; quando per ottenere un pugno di rossetto ci vogliono 500 libbre di questi petali. Del rossetto puro, dal luccichio iridescente si dice che persino ai tempi valesse quanto l’oro.”
Possiamo quasi vederlo quel rosso vivido brillare sulle labbra della protagonista, tanta è la forza descrittiva di Takahata, il quale proseguirà descrivendo passo dopo passo i passaggi, la fatica e pazienza che richiede questa difficile preparazione.
Del rosso intenso della leggenda, non ci resta che un pallido rosa sbiadito.
“Anche il liquido di scarto della pressatura nei tempi passati non veniva sprecato.
Per il pigmento rosso contenuto nel liquido giallo di scarto, se così com’è ce ne si impregna un telo, si ha la tintura cartami.
[…]
Si dice che le donne dei villaggi, alle quali non erano destinati trucchi o kimono sfarzosi, usando questa tintura cartami, dessero colore al loro vivere modesto.
Il pigmento giallo si scioglie via con l’acqua e cotone e lino si tingono di uno splendido rosa chiaro.”
Proprio come delle nostre esperienze, per quanto forti che fossero, non ci resta, a volte, che un pallido ricordo.
Ad alcuni vivere riesce più facilmente
A chi non è capitato di sentirsi inadeguato?
Non parlo solo di momenti particolari, ma del sentirsi costantemente incapaci verso la più naturale delle cose, ovvero vivere.
L’inadeguatezza che si nutre di quel senso di inferiorità che ci si palesa ogni volta che veniamo messe a confronto con qualcun altro, con quelle persone che dall’esterno riescono a far sembrare tutto estremamente facile.
Quelle persone che riescono in tutto senza sbavature, che non sbagliano e che da sempre hanno chiaro chi sono e cosa vogliono essere.
Proprio come quei bambini ai quali la moltiplicazione tra frazioni riesce subito.
“Senta signor Toshio, ai tempi delle elementari la divisione tra frazioni le riuscì subito? […] Si inverte numeratore con denominatore e si moltiplica. Ci riuscì agevolmente come da lezione?” “Non me lo ricordo, bhe però in matematica non è che fossi tanto negato.”
“Ah è così, beato lei se non se lo ricorda ci sarà di certo riuscito agevolmente.”
[…]
“Pare che a chi riesce agevolmente nelle divisioni tra frazioni anche la vita da lì in poi procederà agevolmente. C’era una bimba posata che si chiamava Ryo-chan, la matematica non era per niente il suo forte, però docilmente invertendo numeratore con denominatore cento punti, e questa bimba sempre docilmente è cresciuta svelta, svelta. Adesso è già mamma e di due figli oh! E io invece proprio non ne ero capace…”
E se essere autocritici non dovesse bastare, si possono aggiungere le aspettative che le persone spesso nutrono nei nostri confronti.
Proprio come Taeko che avrebbero voluto brava in matematica prima e sposata ora.
Il problema è che spesso ciò che le persone si aspettano è diverso da quello che possiamo dare e questo contribuisce fortemente ad alimentare quel senso di inadeguatezza di cui parlavamo prima, specie nel delicato momento dell’adolescenza.
E noi continuiamo a sentirci costantemente sbagliati.
Accade un giorno, se si è fortunati, di incontrare qualcuno o che accada qualcosa, che ci aiuti a vedere le cose da una prospettiva diversa.
Che ci aiuti a raggiungere una verità alla quale mi auguro che tutti, chi prima chi dopo, arrivino, ovvero che spesso non siamo noi ad essere sbagliati, semplicemente quando si tratta di noi stessi è difficile vedere le cose per come sono in realtà.
Trovare una nuova prospettiva però sarà possibile solo quando avremo compreso che essere felici non dipende che dalle nostre decisioni..
Taeko prende la sua.
Ora che Taeko conosce la verità, si riscopre libera di poter scegliere che tipo di vita vuole davvero e che tipo di persona vuole essere.
Nella scena conclusiva possiamo vedere i suoi ricordi sedersi accanto a lei e spingerla verso la sua felicità.
La accompagnano simbolicamente nel presente.
Sono parte di lei, sono con lei, sia nel momento in cui sale sul treno per rientrare a Tokyo che in quello dove decide di fermarsi.
Taeko prende la sua decisione serenamente, consapevole ora che l’unica cosa che deve alla se stessa bambina non è altro che essere felice.
…e infine la pioggia
I nostri ricordi ci piovono addosso come pioggia e la pioggia spesso può assumere l’aspetto di un temporale.
I temporali estivi possono essere allo stesso tempo spaventosi e affascinanti per l’incredibile forza con la quale si scagliano su di noi;Arrivano inaspettatamente, rendono l’aria elettrica pesante un attimo prima di rivelarsi e, proprio come i nostri ricordi più forti, ci trovano spesso impreparati, senza difese.
Ci paralizzano, lasciandoci come unica alternativa quella di attendere la fine del loro riversarsi completamente su di noi.
Fortunatamente i ricordi possono cadere anche delicatamente, come una leggera pioggia sotto la quale, il più delle volte, non si sta così male.
Pioggia di ricordi non è una raccolta delle esperienze della protagonista, ma di sensazioni delicatamente dipinte, come con dolci pennellate fatte ad acquerello.
O come se avesse piovuto su un disegno a tinte forti, lasciando solo le tonalità che ci sono più lievi alla vista e più leggere per il nostro cuore.
Lo stesso cuore di chi è costantemente alla ricerca di se stesso per poter essere finalmente sereno e arrivare alla felicità.
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