I nerd e il calcio
Parlare di calcio negli ambienti “nerd” è sempre stato piuttosto complicato: all’interno delle community di videogames, fumetti ed animazione non è raro trovare persone completamente contrarie al giuoco del calcio, tant’è che anche degli influencer di grosso calibro si sono espressi più volte sull’argomento con toni piuttosto duri.
Per quanto sia curioso che una categoria di persone tanto storicamente “ghettizzata” riservi ad altre passioni atteggiamenti praticamente uguali a quelli subiti, questo disprezzo diventa anche più grande quando si verificano eventi come quelli che hanno caratterizzato l’inizio di questo 2019 per la Serie A. Ci scappa il morto e si sentono fioccare i “ve l’avevo detto, il calcio è una roba da imbecilli” ed altre affermazioni patetiche che se ne fregano del rispetto dovuto in queste situazioni solo per colpevolizzare uno sport; ma da quando a commettere un reato non è chi lo compie? E’ assurdo pensare che una passione possa portare un individuo ad un gesto estremo e non che quell’individuo possa essere già predisposto a farlo.
Attribuire la colpa al calcio, quindi, mi sembra un ragionamento pericoloso che tra l’altro ha già causato ripercussioni in altri ambiti: quando nel 1989 Akio Nakamori usò la definizione “assassino otaku” per riferirsi al serial killer Tsutomu Miyazaki, un termine che aveva cominciato ad essere usato per indicare una semplice categoria di fan prese quelle connotazioni piuttosto negative che si trascina ancora oggi.
Se uno come “Ivan il terribile” è una persona violenta non lo si deve all’andamento della partita o al tifo degli ultrà, lo è e lo resterà sempre in qualsiasi contesto venga messo.
Nascere in Italia vuol dire essere esposti fin da subito alla gloriosa tradizione calcistica di questo paese, imparando a riconoscerne col tempo la forte funzione sociale; che sia al campo o in una piazzetta, una partitella è un modo ideale per saldare un legame nel periodo adolescenziale e un mezzo molto utile per recuperarne altri da adulti. Calcio non vuol dire solo pallonate e cori triviali, è anche una rappresentazione perfetta del concetto di comunità: ci si sente uniti dietro ad una bandiera o ad un colore, come se si appartenesse ad una famiglia allargata in cui il sentimento di unione è fortissimo. Gioire per una vittoria o disperarsi per una sconfitta, come in qualsiasi sport, ha un intenso valore catartico che affonda le sue radici in un’esperienza collettiva nella quale ogni emozione viene condivisa.
Una squadra di calcio
Senza scomodare le “Cinque poesie per il gioco del calcio” di Umberto Saba, lettura comunque caldamente consigliata, c’è un manga piuttosto recente (2012) che potrebbe aiutarmi nel tentativo di far capire quanto il calcio promuova dei valori positivi e sia una passione ben più sana di quanto si percepisce: Giant Killing, scritto da Masaya Tsunamoto e disegnato da Tsujitomo.
L’East Tokyo United (per gli amici ETU) è una piccola squadra di Tokyo abituata a stazionare tra le parti basse della J-League, sopravvivendo tra risultati altalenanti e sporadici problemi economici; alle porte di una nuova stagione viene ingaggiato come allenatore Takeshi Tatsumi, ex storico numero 7 dell’ETU da poco ritiratosi che decide di tornare in patria per risollevare le sorti del suo vecchio club.
Se ciò a cui state pensando sono i supertiri di Captain Tsubasa, allontanate immediatamente l’idea: Giant Killing ha un approccio ben più realistico e puntato all’affrontare il calcio professionistico con tutte le sue difficoltà. L’ETU non è affatto una squadra vincente, e anzi da quando Tatsumi se ne è andato le cose sono peggiorate sempre di più; dopo aver fatto per anni la spola tra prima e seconda divisione, i giocatori sono bloccati da una mentalità perdente e l’entusiasmo che prima animava il quartiere si è ormai spento. Il nuovo allenatore si ritrova in un ambiente pieno di problemi nel quale la passione per il calcio sembra essere stata sostituita dalla necessità di mandare avanti gli affari; i vecchi tifosi non hanno più tempo per il gioco di una squadra di perdenti, e i calciatori si ritrovano a giocare per un singolo gruppo di agguerriti ultrà (gli Skulls) in un’atmosfera tutt’altro che positiva.
La sconfitta si è radicata nell’essenza stessa dell’ETU al punto da costringere Tatsumi a provocare la squadra sin dal ritiro per smuovere gli animi e ricordare ai giocatori cosa vuol dire essere dei professionisti. Tale parola nel mondo del calcio non significa soltanto totale dedizione nei confronti degli aspetti lavorativi, ma anche fortuna di poter vivere facendo qualcosa di divertente e stimolante: giocare su di un prato enorme con migliaia di tifosi sugli spalti a spronarti è una sensazione unica che va colta sul momento, aldilà di ogni sconfitta e di ogni nervosismo.
Il valore umano del calcio
Quando però fai questo mestiere da tanti anni e giochi in una piccola squadra con poche speranze, è molto semplice sottovalutarsi e porsi dei limiti; basta un peggioramento dei risultati o un cambio di allenatore per bloccare mentalmente un giocatore ed impedirgli di esprimersi al meglio del suo potenziale. Non c’è esperienza o saggezza che tenga perché in questi aspetti dello sport si rivede il normale andamento della vita: il tuo peggior nemico è quello che vedi ogni mattina dentro lo specchio, l’unica persona sulla faccia della terra che non potrai mai conoscere veramente. Il capitano Murakoshi, ad esempio, ha vestito la maglia dell’ETU lungo tutta la sua carriera, rimanendo sempre fedele a quei colori anche nei momenti più bui; i dirigenti contano sempre su di lui, tutti lo conoscono come “Mister ETU” e i suoi compagni di squadra lo rispettano moltissimo. Addossandosi ogni volta tale ruolo, tuttavia, c’è il rischio concreto di concentrarsi sui problemi della squadra ignorando nel frattempo i propri. Murakoshi si è letteralmente annullato nella convinzione di essere il collante della squadra, e ha così lasciato che quei pensieri prendessero il sopravvento sul suo gioco; le sue qualità di centrocampista a tutto tondo vengono offuscate da un incrollabile lealtà che da valore positivo si trasforma in mura di isolamento.
Nel bizzarro pre-stagione organizzato da Tatsumi lo storico capitano si vede contrapposto più volte ad un giovane appena promosso dalla seconda squadra, Daisuke Tsubaki: pur essendo diecimila volte più abile ed esperto di lui, il veterano fatica spesso a stare al passo e nota nel ragazzo qualcosa che sente di non avere più. Avere la certezza di essere il pezzo più importante di una squadra professionistica è un’arma a doppio taglio per via di una sicurezza eccessiva che condiziona inevitabilmente la mentalità di un giocatore. Murakoshi si sente insostituibile per il ruolo che ricopre, però le sue prestazioni non sono più decisive da tempo: quella opprimente fiducia che tutti ripongono in lui è un carico di responsabilità troppo ampio per una sola persona. Giocare da professionista vuol dire essere responsabili di un grande apparato, ma non bisogna mai dimenticarsi della propria individualità e del divertimento che si deve provare nel prendere a calci un pallone.
Per quanto il protagonista da copertina sia indubbiamente Tatsumi, l’attenzione viene posta molto spesso sui calciatori, sui dirigenti ed anche sui tifosi, ampliando i punti di vista a tal punto da consentire una visione praticamente completa del calcio professionistico.
Essendo attualmente arrivato a 49 volumi sarebbe alquanto complicato (e spoiler) discutere approfonditamente di ogni tematica affrontata da Giant Killing, oltre che estremamente prolisso; basta il primo volume per farsi un’idea di come la serie di Masaya Tsunamoto e Tsujitomo sia imbevuta di quanto c’è di genuino nel calcio, proponendone comunque una visione realistica in cui sono presenti anche presidenti dagli atteggiamenti un po’ mafiosi, allenatori stronzi e soprattutto una grande tensione (rappresentata dalle brusche reazioni degli Skulls).
Volete capire cosa ci sia di bello nel vedere “11 ragioneri in mutande allo sbaraglio” giocare a pallone? Leggete Giant Killing.
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