Cosa definisce un titolo un cult videoludico ?
Nelle nostre precedenti analisi del mercato videoludico, ci siamo soffermati sull’esaminare l’industria vista dagli occhi dei giocatori. Abbiamo parlato dell’approccio nei confronti dei prodotti in uscita e della “virulenta curiosità” del gamer odierno, talvolta addirittura nociva. Abbiamo analizzato il dualismo tra Oriente e Occidente, due mondi così lontani quanto vicini, e non abbiamo mancato di analizzare fenomeni e mode del momento. Siamo qui oggi per esaminare un fenomeno che va oltre l’industria e le sue mere catalogazioni; parleremo infatti della definizione di “Cult”. Quali elementi fanno di un’opera un cult videoludico? Ovvero, quali sono quegli aspetti che rendono un videogioco il blue print dal quale partire per creare l’esperienza di gioco definitiva? In questa nostra analisi capiremo quali sono stati, sono e potrebbero essere i cult videoludici di questa e delle prossime generazioni. Parleremo dell’ultimo God Of War e del perché sia un cult mancato, e inoltre capiremo perché Red Dead Redemption 2 potrebbe essere il prossimo punto di partenza per l’industria. Da questo semplice pretesto, iniziamo quindi a parlare più approfonditamente di questi argomenti, prendendo come incipit proprio il passato, nonché tutti quei giochi consacrati come cult nei decenni passati.
Half-Life 2, l’importanza di un simbolo
Capita spesso in normali conversazioni tra amici che una delle due parti ponga la semplice quanto complessa domanda su quali siano i giochi più importanti di sempre. Le risposte variano – come è giusto che sia – da soggetto in soggetto. Tuttavia, c’è un titolo che mette tutti d’accordo, indipendentemente dai gusti e dalla sensibilità ludica; stiamo parlando di Half-Life 2. Che voi abbiate recuperato solo di recente il titolo o che l’abbiate vissuto nel suo pieno clamore mediatico nel lontano 2004, concorderete nel riconoscere che si tratta di una delle pietre miliari dell’industria. A distanza di 14 anni dalla sua uscita, viene ricordato come lo spartiacque tra due generazioni nel modo di intendere e di fare il videogioco.
Il gioco di Valve ha conciliato l’evoluzione tecnica alla solidità narrativa e interattiva. Parliamo infatti del primo first person shooter ad aver incorporato, ben più del suo predecessore, la narrazione al gameplay, senza limitarsi al solo uso delle cutscenes. L’impatto che ha avuto sull’industria è stata notevole, e ancora oggi molti dei titoli odierni, per seconda o terza mano, attingono da esso. Il middleware Havok, il motore che gestisce la gravità del gioco, è sicuramente una delle ragioni per cui lo si è ritenuto fin da subito avanguardistico – è tuttavia innegabile che da Havok si siano fatti notevoli passi avanti. Perchè è così importante sottolineare l’evoluzione della diegesi che ha portato nel medium? Come ha fatto un titolo vecchio più di un decennio a resistere alla prova del tempo? Facciamo un paragone di tutt’altro genere.
L’essere umano, per natura, ha da sempre cercato di idealizzare gli aspetti della vita quotidiana attraverso dei simboli. Basti pensare ai primi cristiani nell’antica Roma, che per sfuggire a persecuzioni e massacri, quindi riconoscere gli altri professanti, sfruttavano la lettura iconografica di semplici disegni parietali. Oggi, la religione cristiana è universalmente riconosciuta attraverso il simbolo della croce. Ecco cos’è Half Life per il medium: un simbolo di cambiamento, la manifestazione dell’evoluzione concreta del videogioco. Quindi, se vi state ancora chiedendo perchè i fan di tutto il mondo implorino Valve di rilasciare il leggendario Half Life 3, la risposta è presto detta. Tutti i giocatori sperano in un nuovo “12 ottobre 1492” videoludico, che segni l’inizio di una nuova generazione con un nuovo modo di concepire la “decima Arte”.
God Of War, un cult mancato
L’ultima generazione di console ha visto uno scontro più feroce rispetto agli precedenti anni, tra confronti tecnici, contenutistici e talvolta inutili schermaglie tra parti. Microsoft e Sony, come sempre, hanno proposto le loro piattaforme di gioco e, complici anche delle scelte discutibili da parte della rivale, la casa Nipponica ha dominato il mercato per numero di vendite. Non siamo qui per soffermarci sulla Console War, massima espressione di un mondo basato su un triste dividi et impera. Parleremo infatti, di una delle esclusive Sony che ha riscosso il maggior successo tra critica e pubblico. Stiamo parlando del ritorno di Kratos e di God Of War.
Fin dalla sua prima comparsa sulla leggendaria PS2, il Dio della guerra è divenuto il beniamino dell’action made in Sony. Con un gameplay immediato e ben strutturato, nonché un level design che unisce alla perfezione enigmi ambientali e maestose mappe aperte, il gioco risulta tutt’ora un’esperienza piacevolissima. Il capitolo uscito nel corso del 2018, come prevedibile, ha unito giocatori e critica con un tripudio di perfect score – e anche noi non abbiamo mancato di parlarne con una recensione. Col primo trailer mostrato all’E3 2016, il pubblico si divise in due riguardo il gioco di Santa Monica. C’era chi gridava al miracolo per la stupefacente resa grafica, ma era anche diffuso lo scetticismo nei confronti del titolo, non riconosciuto come God of War per il troppo snaturamento. Col passare del tempo e l’aggiungersi di informazioni relative alla trama e le nuove meccaniche, Santa Monica ha riacquisito la fiducia necessaria per sorreggere il fattore novità.
Arrivati allo scorso Marzo, mese di uscita del titolo, pad alla man nessuno ha potuto negare che il titolo sia qualitativamente eccelso. Tuttavia, non è il momento di dilungarsi in chiacchiere sui punti di forza dell’opera. Vogliamo spiegare piuttosto perché sia definibile un capolavoro a metà, il Turandot videoludico. Partiamo da un dato di fatto: God Of War rappresenta un’evoluzione completa della formula proposta negli scorsi anni, sia nel bene che nel male. Tuttavia, questa evoluzione ha portato a uno snaturamento della formula vincente proposta per i titoli precedenti, che ha determinato la nascita di una chimera videoludica, fatta di diverse influenze di mercato. Santa Monica infatti ha ribadito più di una volta come Dark Souls sia stato un titolo di forte ispirazione per il Dio della guerra.
Il parry, le schivate, molte delle meccaniche ruolistiche presenti nel titolo sono di palese ispirazione al titolo di FromSoftware. Altro aspetto fondamentale da analizzare è il “peso” di essere un’esclusiva Sony, e di dover fare necessariamente affidamento su alcuni connotati. Molte delle scelte registiche o di game design sono fortemente riprese da titoli quali Uncharted 4, The Last Of Us o Horizon: Zero Dawn, e questa è divenuta una caratteristica tipica di ogni esclusiva. La telecamera posta in una certa posizione rispetto al protagonista, la fondamentale importanza delle cutscenes o la coesione di meccaniche di gameplay di generi differenti. Tutto questo fa di God Of War un titolo spettacolare, eccelso sotto ogni punto di vista, ma che quasi si perde nelle ispirazioni esterne. Di fondamentale importanza è che lo studio di Santa Monica sviluppi da queste basi una propria identità di game design e renda giustizia a Kratos e Atreus.
Free to play, sono dannosi per l’industria?
Negli ultimi anni si è sviluppato un modello videoludico che nel bene o nel male ha cambiato l’equilibrio del medium. I free to play, amati e odiati, sono ad oggi una delle maggiori fonti di guadagno per gli sviluppatori di tutto il mondo. Basti pensare al colosso del gaming mainstream, Fortnite, e la baraonda mediatica che ha generato con la sua formula immediata e adatta ad ogni tipo di giocatore. Possiamo portare l’esempio di Blizzard, una delle prime software house a proporre titoli del genere con Hearthstone e Heroes of the Storm, ad oggi i due f2p principali proposti dalla casa americana.
Possiamo affermare che l’approdo sul mercato di così tanti giochi gratuiti abbia impoverito e abbassato il livello medio della proposta ludica? Possiamo quindi dire che se oggi vengono sfornati sempre meno cult sia colpa anche di queste manovre? Per rispondere a questa domanda, faremo riferimento alle dichiarazioni di un uomo che la storia del game design l’ha scritta. Stiamo parlando di Shigeru Miyamoto. Il Maestro del gaming Nintendo, alla scorsa Computer Entertainment Developers Conference ha affermato che “i free to play danneggiano l’industria e sovraccaricano i giocatori”. Il significato di queste parole è più chiaro di quanto sembri. La costante uscita di un così alto numero di titoli accessibili a tutti, riempie il mercato a tal punto da “intasarlo” e porre l’utente in uno stato di totale indecisione, frammentazione psicologica.
Una così ampia scelta rende il giocatore spaesato, senza sapere su quale titolo concentrare le proprie attenzioni, nonché incapace di godere appieno il frutto di lavori pluriennali. Questo porta a un costante impoverimento delle idee da parte degli studi di sviluppo, dunque a una perdita di originalità e innovazione – termine sempre più abusato con sottotesto nostalgico. Ecco perché potremmo definire questo fenomeno come la Kryptonite dei cult, un leitmotiv che impedisce alla creatività di proliferare. Con queste affermazioni non vogliamo denigrare tutti i titoli gratuiti attualmente sul mercato, bensì vogliamo sottolineare come questo processo possa essere una delle cause principali per cui ad oggi si avverta la creatività stagnare.
Rockstar Games, fautrice di capolavori senza tempo
Quando si parla di Rockstar Games, si fa nella consapevolezza di star nominando uno dei colossi del medium videoludico contemporaneo. Lo studio è un caso più unico che raro nel settore, poiché ogni suo titolo, nel bene e nel male, ha sempre smosso le acque del medium nei momenti di stallo. Sin da Grand Theft Auto II, titolo che segnò l’acquisizione da parte dell’attuale Rockstar North di DMA Design, il successo dei titoli firmati “R” sarebbe stato una costante. Non possiamo quindi non associare alla parola cult, uno o più dei titoli della software house. Prima di parlare dell’avvenire, e quindi di Red Dead Redemption 2, occorre parlare di quello che è considerato il padre – o padrino – degli open world contemporanei, ovvero GTA III. Si tratta dell’ultimo titolo ad essere sviluppato dallo studio britannico, uscito nell’ottobre 2001, e gioco più venduto dell’anno in Europa, Stati Uniti d’America e Giappone. Alla sua uscita suscitò un tale scalpore mediatico che Metacritic lo classificò come “successo universale”.
Ad oggi è ancora il sesto titolo col punteggio più alto di sempre nella storia del videogioco moderno. Tuttavia, oltre ai grezzi numeri di numeri, occorre parlare della sua importanza storica. Prima di allora nessun titolo era stato capace di proporre una resa grafica così all’avanguardia in relazione agli standard. La tridimensionalità valorizzava all’estremo il concetto di fondo del gioco, e se si aggiungono modelli poligonali così avanzati e textures così dettagliate, mai viste prima su una piattaforma di gioco dell’epoca, capiamo il perché del suo impatto. Non possiamo definire un caso la scelta del nome dell’ambientazione, la fittizia Liberty City. La più grande delle qualità di GTA III era proprio il senso di libertà a portata di controller. Ritrovarsi in una così grande mappa, senza regole e senza limiti – almeno apparentemente – apriva un mare di approcci al gioco differenti. Il terzo capitolo però, non è di certo l’unica cannonata di casa Rockstar.
Nel corso degli anni la software house americana è riuscita a concepire una formula capace di proporre titoli che in un modo o nell’altro arrivino a tutti. Riesce ad accontentare il giocatore medio con l’immediatezza dell’esperienza, che unisce meccaniche semplici al puro “passare il tempo”, e riesce ad accontentare il giocatore più navigato con esperienza progressivamente più profonde. Ecco spiegato perché, ad oggi, Grand Theft Auto V è il terzo videogioco più venduto di sempre, nonché più venduto su PS3 e PS4. L’ultimo capolavoro di Rockstar Games è stato un plebiscito di successo. Un titolo capace di unire il meglio degli elementi di game design dei precedenti capitoli, senza snaturarli, ma anzi, evolvendoli e migliorandoli. Se alla formula vincente aggiungiamo poi una modalità online ancora supportata, con server che pullulano di giocatori, non possiamo dubitare della veridicità di quanto detto in precedenza. In conclusione, abbiamo appurato che questo studio di sviluppo è sinonimo di qualità ed innovazione, e a breve parleremo della nuovissima prova di forza: Red Dead Redemption 2.
Il futuro dei Cult: cosa ci aspetta?
Dopo aver parlato di passato e presente, ora tocca al futuro. Una cosa è certa: per aspettare il prossimo vero grande cambiamento dell’industria, dobbiamo aspettare l’uscita delle prossime console casalinghe. Queste ultime rappresentano l’ambiente dove nascono piccole e grandi imprese videoludiche, talvolta propulsore della novità, e talaltra calmiere di una spirale sfrenata del progresso. Un’affermazione tanto banale quanto vera: l’ottava generazione ha ormai esaurito le sue cartucce e ha poco altro da offrirci. Dunque, su cosa potrebbero puntare gli sviluppatori delle più grandi software house? Che caratteristiche avrà il cult del futuro? Una vera e propria rivoluzione potrebbe essere data dallo sviluppo dell’IA in applicate alla costruzione di mondi – come già discusso. Escluse rare eccezioni, ci sarebbe bisogno di uno sviluppo massiccio dei modelli comportamentali dei personaggi non giocanti, e questo potrebbe essere il fattore caratterizzante della nona generazione.
Parlando di periferiche esterne, la realtà virtuale potrebbe seriamente diventare una proposta valida nel mercato? Dovremmo realmente aspettarci cult interamente basati sui visori? Il più grande problema di prodotti quali Oculus Rift, HTC Vive o PS VR è la motion sickness. La risoluzione dell’effetto collaterale causato da queste periferiche potrebbe sicuramente favorirne la commercializzazione, e aprirebbe le porte a formule ludiche più complesse. Soprattutto, c’è il bisogno di titoli che vadano oltre il livello di interazione proposto fino ad oggi. Sono davvero pochi i titoli che danno valore ai visori in commercio attualmente, e spesso si tratta di esperienze che non ne sfruttano fino in fondo l’espansione sensoriale. Sappiamo che questi mezzi sono limitati per motivi ovvi, e che si tratta di un’impresa titanica migliorarne le caratteristiche. La realtà virtuale avrà un posto di rilievo nel futuro del Gaming? Probabilmente, ma non è questo il momento storico giusto. Quindi, che il futuro riesca a sorprenderci e che il medium ci offra qualcosa che vada oltre ciò che la nostra immaginazione possa concepire allo stato attuale delle cose.
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